Soteria and no restraint
Merano 21-23 Novembre 2007
I liberatori non esistono. Sono solo i
popoli che si liberano da sé.
Emilio Lupo
Direttore S.C. - Dipartimento di Salute
Mentale - ASL Napoli 1,ds49
Segretario
Nazionale di Psichiatria Democratica.
Quanti, dopo Pinel, si sono interessati della vita e dei diritti di chi
esprime il proprio disagio esistenziale attraverso i “sintomi” - che le scelte di codici, normative e pratiche
contenitive hanno designato e designano
ancora come sola espressione di “semplice” malattia - costoro sanno che la
strada per la liberazione dalla psichiatria è lunga ed impervia.
La psichiatria è traboccante di tragiche utopie. Nel corso dei secoli,
ahinoi, queste si sono concretate con gli Ospedali psichiatrici e la
coercizione fisica, i bagni gelati e le pratiche di shock (insulinoterapia,
malaroterapia, elettroshock etc.) fino al moderno annichilimento farmacologico.
I detentori del potere di
cura, difatti, si sono sempre mossi
sul binario regola/salvezza e limitandosi a modificare di volta in volta
soltanto i vagoni di quel treno di cura, ne hanno imposto direzione e velocità
con un locomotore che ha finito, nella
sostanza, per essere il vettore unico ed immutato per la vita di migliaia e
migliaia di uomini e donne ammalate.
Sì perché è stata la malattia, la pericolosità sociale, il pubblico scandalo e l’opportunità a cadenzare il fare per i matti e non l’esistenza
sofferente, la difficoltà al confronto ed alla condivisione: a me interessa il malato e non la
malattia ammoniva Franco Basaglia
qualche anno fa.
Sul falso storico della
incurabilità della malattia, ancora oggi sufficientemente titolato, e su quello
esclusivamente tecnico del binomio curare/rinchiudere, si è sviluppata da un
lato tutta la legislazione antecedente alla riforma psichiatrica del 1978 nel
mentre, dall’altra, continua a vivere ed a esprimersi - con tutta la virulenza
di cui è capace soltanto il cieco perbenismo - l’egoismo umano, la sua
necessità egoistica di separazione e perciò di creare, ancora e comunque, luoghi riservati
per i matti.
Non svii il fatto che molti tra coloro che, oggi, si trovano a
dibattere sul tema disagio psichico, escludano, apparentemente, la riapertura
dei manicomi, quasi a volersi convince – ad alta voce – che nessuno davvero pensa
ad una riedizione degli ospedali psichiatrici: nulla di più falso. E del resto
basta leggere le ultime proposte di “miglioramento” della legge 180/78 o le
semplici esternazioni di un ministro, in coda al suo mandato, per capire che non
c’è da farsi soverchie illusioni: il modello manicomio è ancora nella testa di
molti italiani. Lo è per familiari che, se lasciati soli, cercano la via breve
della custodia. Lo è per l’operatore
pubblico che, stanco della mancata risposta alle proprie richieste di risorse
territoriali, finisce, talvolta per
mancare al proprio ruolo di trasformatore e di avanguardia. Lo è ancora per quegli
operatori che distratti dagli infiniti interessi economici che
gravitano intorno alla sofferenza, semplificano ogni loro atto: il tempo dovuto
ai pazienti finisce così “rubato” ed utilizzato al contrario a produrre
vantaggi personali con interventi finalizzati alla speculazione ed al lucro. Lo
è per i politici frettolosi come per quelli che il più delle volte ignorano il
problema e nonostante tutto sentenziano, propongono schemi di legge ed appena
possibile,cavalcano quella psichiatria
dei lutti che riempie le prime
pagine dei quotidiani o l’apertura dei telegiornali.
Ecco le nuove proposte che puzzano d’antico. A mimare il diciannovismo del
terrorismo verbale borghese:con le richieste di Trattamenti Sanitari
Obbligatori (T.S.O.) nelle case - famiglia, ecco le ore d’aria per gli ospiti
delle strutture intermedie residenziali ed i reparti di Diagnosi e Cura che dovrebbero
ospitare giocatori d’azzardo, barboni, alcolisti, tossicodipendenti.
E poi, subito dopo, una più che restrittiva legge sulla fecondazione
assistita che obbliga, di fatto, le coppie ad emigrare.
E le nuove regole per i lavavetri: pericolosi figuri che
bisogna fermare subito, se non si vuole - tuonano dal governo - assistere ad
una deriva autoritaria.
Quel che vado sostenendo è che tutti questi segnali delineano un
progressivo depauperamento delle libertà personali in tutto il Paese. Essi non
riguardano, com’è noto, solo la sanità e la psichiatria in particolare (guai a
pensare per settori, si rimarrebbe ingabbiati, inesorabilmente), ma fanno parte
di un disegno più ampio - che mira a sostituire i diritti conquistati negli
anni da donne, uomini e dai lavoratori - in nome, e lo si enfatizza, della necessità
di far progredire il Paese e/o di non
rimanere vincolati in maniera ideologica al passato.
Ohibò!
In questo panorama nazionale, avanza in
psichiatria - con punte di vera e propria eccellenza, col segno meno al
sud - da un lato la riduzione delle risorse umane ed economiche alle Aziende
Sanitarie insieme allo sviluppo di forme opprimenti di precariato nei Servizi
pubblici e nella cooperazione sociale e, dall’altro, l’esaltazione dell’offerta
del privato mercantile, accolta come fosse risolutrice “nella sua incantevole
genuinità postmoderna e riformista”.
Se per i primi le risorse umane ed economiche scarseggiano sempre più,
con un tournover quasi inesistente e/o con una sofferenza evidente nelle
retribuzioni ordinarie, per gli altri gli investimenti e la puntualità nei
pagamenti (almeno in determinati settori ) vanno invece a gonfie vele.
Alcune riflessioni:
1) La psichiatria nella gran parte delle
realtà del Paese (non sono escluse le realtà associative) continua a limitarsi
al proprio specifico, imbalsamata tra i nuovi farmaci, l’organizzazione
burocratica dei propri spazi e Servizi e il riduzionismo di un fare tecnico totalmente avulso dal contesto in cui si vive e si opera. Questa
psichiatria non risulta, pertanto, una
risorsa collettiva come noi caparbiamente continuiamo a sostenere da anni,
tuttaltro;
2) la psichiatria, dapprima con la legge
180/78 poi con i Progetti Obiettivo (nazionali e regionali) invece di esprimere tutto il suo
potenziale antistituzionale e di partecipazione collettiva, rischia di non
mutarsi giammai in Salute Mentale di comunità, proprio perché resa subordinata a parametri – nel migliore dei
casi - semplicemente efficientisti o che si limitano al solo contenimento della
spesa;
3) la incapacità a tener dentro – immergendosene
fino al collo - i processi di liberazione, in maniera tanto permanente quanto
naturale, sentendosi dunque parte della
società civile in tutte le sue articolazioni, favorisce irrimediabilmente il
predominio del tecnicismo tout court, tutto dentro alla medicina: la pillola
della felicità, la necessità di attivare di luoghi contenitivi purché puliti
e a norma, la standardizzazione
delle risposte, etc..
A
questo punto e per l’esperienza maturata negli ultimi trent’anni vogliamo dire almeno
due cose:
a) Che la psichiatria clinica e quella
farmacologica, da sole,non hanno portato lontano, non hanno risolto. Esse
restano segmenti,mentre è necessaria la complessità progettuale ed attuativa di
mille altri atti quotidiani, che rivestono grande importanza, come del resto è
dimostrato, ampiamente, dalle esperienze maturate in tantissime parti d’Italia,
nel corso degli ultimi decenni;
b) Che senza concreti ed autentici percorsi di
inclusione sociale - a partire dal fatto
di poter vivere una casa propria ed
essere inseriti a pieno nel mondo del lavoro - quanti si riferiscono alle
strutture socio-sanitarie pubbliche territoriali, rimarranno dei rimorchiati,
eterni pazienti o comunque persone azzoppate,
dipendenti.
Se la lotta alle contenzioni resta un
impegno di lotta forte per le sue ricadute (la salvaguardia dei diritti fondamentali
di ciascuna persona) a questo impegno deve, con decisione,affiancarsene uno più
ampio, ovvero quello di rendere
effettivo e permanente il binomio contrattualità/socialità,
pensandolo ben oltre il mondo della psichiatria, come orizzonte altresì che
accoglie il desiderio all’umana affermazione con un’esistenza liberata, collettivamente, dai
bisogni e affermata soggettivamente nel diritto all’espressione delle sue necessità
individuali.
L’operatore di salute mentale di comunità è
uno dei promoter (pur se tra i principali) che si adopera e lavora e mette in
campo le proprie risorse intese come sociali, pur non rinunciando al suo
specifico bagaglio esperenziale, né al sapere di cui è portatore, tanto meno
al ruolo cosiddetto tecnico: solo così
l’operatore potrà sottrarsi, una volta e per sempre, dallo svolgere la parte
che il potere gli riserva di volta in volta a seconda del contesto storico-politico:
custode, controllore, buonista, efficientista, rigido, facilitatore ,superficiale,
caldo, freddo, invischiato etc. Tutte queste categorie finiscono - anche contro
la stessa volontà degli addetti - per assumere variegate forme di dominio e
null’altro.
Il problema da affrontare, per chi scrive,
non è soltanto cosa facciamo e forse nemmeno come lo facciamo, bensì qual’è il
risultato che si vuole raggiungere. E’ impellente la necessità di agire un
discorso netto, che non si presti ad interpretazioni. Ecco perchè alla determinazione
per impedire, sempre e per sempre, la contenzione, si deve affiancare e fare
strada l’idea che la svolta ci sarà soltanto se i problemi che hanno come
nome il disagio, la povertà, l’isolamento e la prevaricazione non saranno più
confinati in luoghi deputati ma troveranno spazio in tutte le pieghe della
società e se di essi si faranno carico in tanti – ciascuno per la sua parte –
piuttosto che soltanto i tecnici e gli addetti. E questo costerà fatica, a partire dagli
operatori: noi non siamo dei liberatori, ma compartecipanti di un processo di
ridefinizione in termini di potere contrattuale.
E’ giunto il tempo che i diritti
fondamentali di tutti gli uomini siano coniugati per intero, piuttosto che i
loro brandelli, occorrerà, insomma, che si metta mano allo sviluppo del tutto
invece di continuare ad accontentarsi della loro sezione. Diversamente la
psichiatria - anche quella che tiene duro e che non ci sta – rimarrà subalterna
al potere economico, alla cultura della separazione, seguitando ad assistere – più
o meno passivamente – alla incessante trasformazione delle differenze (che sono
ricchezza) in rilevanti disuguaglianze (che sono povertà).
Sarà ancora la psichiatria intrisa di una
cultura da sala settoria, che si ripropone ed avanza con le
aggiornate formule del profitto, da
quello farmaceutico fino alle lobby neo-residenziali. Quella psichiatria
invocata dal perbenismo diffuso ed
annacquata con programmi di
tolleranza marginalizzante, che continuerà a procedere a senso unico seppur
modulata, ma solo tatticamente, con
modalità e rappresentazioni diverse.
Il punto nodale non è solo la singola
capacità contrattuale, ma il fatto che si affermi come indispensabile una contrattualità collettiva, dentro la
quale ci siano le specificità di ciascuno uomo ed al loro interno il
soddisfacimento degli irrinunciabili bisogni. Non il contrario.
Probabilmente oggi quando ci affanniamo a
negare le differenze finiamo per sottolinearle, per allargare il fossato e le
distanze, dando così spazio - di volta in volta - al pietismo, alla carità
pelosa, quando non all’avversione, all’odio, fino alla paura di specie.
E registriamo che, come ieri, sono sempre
lì - seppur vestono diversamente e discorrono in maniera apparentemente più
pacata - coloro che ne sanno ogni volta più di te, che conoscono la soluzione,
sempre e comunque e, come i grandi esperti di cruciverba, incolonnano - uno
dietro l’altro - tutti i comandamenti conformisti quali l’ipocrisia, la distinzione,
il sospetto e l’allontanamento dell’altro dal contesto.
Si tratta non di rispondere tanto colpo su
colpo, dialetticamente, ai detrattori controriformisti, ma attrezzarsi per
concretizzare, in forma sempre più pregnante e produttiva, grandi alleanze, tenendo
dentro un grande progetto di liberazione giovani, imprenditori,mondo dello sport e
dell’artigianato, intellettuali, industriali e classe politica, donne e casalinghe,
mondo dell’informazione e pensionati con lo scopo che si possa:
a) Diventare titolari del proprio ruolo
all’interno del collettivo, in ragione di un reddito autonomo e sufficiente,
contrapponendosi ad una visione della Salute Mentale come orizzonte utopico o,
peggio, a semplice dichiarazione di intenti ;
b)
Rendere
i luoghi di incontro e di confronto sempre più “permeabili ai microprocessi sociali e culturali del
territorio” così che ci si possa prender
cura della persona, della sua storia e del suo contesto utilizzando le risorse
collettive a sostegno della crisi individuale;
c)
Spingere
l’esecutivo a riconvertire, significativamente, la spesa sanitaria e quella
sociale in modo da poter contare su risorse economiche adeguate ma soprattutto costruire
modelli di integrazioni tra loro in tutte le articolate e differenziate realtà
politico – amministrative pubbliche.
“ Ciò che io sono e posso, dunque, non è affatto determinato dalla mia individualità... Io sono, come individuo, storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio...” ( K. Marx ).
In conclusione, quanto andiamo sostenendo
da anni, ovvero il superamento puntuale dello specifico psichiatrico, non è una
negazione apodittica o la nostra maniera per contrastare la semplificazione
della malattia a favore della complessità dell’esistenza umana. Esso è la forma
operativa e concettuale della responsabilità comune cui la società deve mirare
e della quale farsene carico affinché ci si possa liberare da vincoli
economici, fisici, culturali che impediscono ai singoli la piena realizzazione
di se stessi e dei loro progetti di vita. Insomma
dobbiamo tenere costantemente aperto il canale di comunicazione con tutto
quanto il territorio riversa nella nostra vita tutti i giorni e nutrircene. Con
tutta l’immensa ricchezza e varietà di richieste, sensazioni, esigenze,
problemi, sentimenti per fare in modo che la psichiatria non si esaurisca nella
psichiatria stessa ma sfoci nella vita.