CEDEP - XVI seminario annuale
Democrazia e salute mentale
Bucarest, 17-20 maggio 2007
LE QUESTIONI ETICHE E POLITICHE DELLA SALUTE MENTALE IN ITALIA
Mariella Genchi·
Sono passati 29 anni dalla legge
180, la cosiddetta legge Basaglia del 13 maggio 1978, che in Italia ha abolito
i manicomi e disposto la costruzione di servizi alternativi territoriali,
inserendo la riforma psichiatrica nella più ampia riforma sanitaria approvata
nello stesso anno. Questa Riforma ha istituito il Sistema sanitario nazionale
basato sui principi della uguaglianza e della gratuità delle cure. La legge 180
ha sancito inoltre, che il malato mentale non può più essere considerato
pericoloso per sé e per gli altri.
Una legge che ha segnato il punto
di arrivo di un ciclo di storia del movimento italiano che aveva avuto inizio
17 anni prima, con l’esperienza di Franco Basaglia, a Gorizia, quando nel 1961
assunse la direzione dell’Ospedale Psichiatrico di quella città. Questo
movimento che nel 1973, si nominò Psichiatria Democratica, ha attraversato ed è
stato attraversato dalle lotte e dai movimenti sociali che sono stati alla base
dello sviluppo della democrazia di quegli anni.
Ancora oggi, a distanza di 45 anni,
questa storia è un elemento di forza nell’affrontare i problemi legati alla
nuova organizzazione, di tipo aziendale, della sanità. Rappresenta un punto di
continuità nella difesa dei diritti dei pazienti psichiatrici e nella lotta per
mantenere un sistema democratico delle
cure, contro i vari tentativi di controriforma che hanno caratterizzato la
storia italiana
E’ un punto di riferimento anche
quando si vuole trasmettere ad altri, in Europa, il far valere di un assistenza
psichiatrica che non si fonda più sull’esistenza dei manicomi e sulla
segregazione delle persone.
Una storia unica per la
radicalità delle trasformazioni che sono state prodotte, una storia in parte
conosciuta e allo stesso tempo così ricca e complessa da renderla difficile a sintetizzare.
Un aspetto fondamentale del
lavoro di Basaglia e dell’equipe di Gorizia, è stato quello di essersi subito sottratti
alle ideologie di modernizzazione del manicomio per avviare una critica all’
“istituzione totale”. L’attenzione viene focalizzata su ciò che il manicomio produce
nella vita di quelle persone che, in nome di una malattia che presume una
pericolosità sociale, vengono sequestrate e private della libertà e della dignità
umana.
Una pratica critica che, come
afferma Basaglia in un importante testo del 1980 scritto poco prima della sua
morte, “ha reso esplicite le connivenze esistenti tra sapere psichiatrico e
regole dell’organizzazione sociale, tra pratiche espulsive e controllo dei
comportamenti devianti”[1] . Questa critica investe anche il modello della
malattia come organizzazione clinica.
In quegli stessi anni Michel Foucault, che in una sorta di sincronica coincidenza
aveva scritto “La storia della psichiatria” nel 1961, analizzava il potere
psichiatrico, come potere disciplinare “la cui proprietà è quella di fabbricare
corpi assoggettati”.[2]
A Gorizia gli psichiatri e gli
altri tecnici prendono coscienza del
loro ruolo di esecutori dell’ideologia dominante e rifiutano il mandato di
controllo sociale che viene loro affidato. Questo rifiuto diventa la base
dell’alleanza con gli internati e l’inizio di un percorso di trasformazione
istituzionale che, attraverso il passaggio della cosiddetta “comunità
terapeutica”, porterà all’abolizione del manicomio: si slegano i malati, si
aprono le porte, si abbattono i cancelli.
E’ in quel momento che si
trasforma il rapporto curante-curato e si costruiscono dei reciproci rapporti
di potere. Come dice Basaglia:”Se il malato era in qualche modo costretto ad
interagire e a partecipare all’organizzazione collettiva, lo psichiatra e
l’infermiere dovevano a loro volta sottoporsi ad una pedagogia del rischio, ad
una sfida autentica dei poteri dell’altro, ad una concreta assunzione di
responsabilità nel rapporto. In tal modo la critica dell’autorità latente del
medico, nella comunità terapeutica, si salda con l’attribuzione al paziente di
una contrattualità, che, nel chiuso del manicomio è connessa al suo statuto di
malato”.[3]
In questo scritto sono enunciati
i fondamenti che sono alla base del progetto del movimento antiistituzionale di
allora e del movimento di Psichiatria Democratica di oggi, di farsi reale
pratica democratica.
Il passaggio dalla logica della
tutela a quella della contrattattualità del paziente, è un punto cruciale, una
sorta di cartina di tornasole perché crea una rottura nei rapporti di
dipendenza, sia all’interno del rapporto di cura, sia in quello con le
istituzioni ed i servizi e, in senso più allargato, con il sociale.
Basaglia ha subito messo in
evidenza i rischi che il malato, liberato dalla contenzione fisica e dalla
forza, a cui comunque poteva opporsi con i suoi eccessi, possa sviluppare, in
un sentimento di gratitudine verso chi lo ha liberato, “un rapporto di assoluta
soggezione e dedizione al ‘buono’ che si dedica a lui, che si china-dalla sua
altezza- ad ascoltarlo e non dice mai di no”. [4]
Perché “sull’onda del
cambiamento, afferma ancora Basaglia, si rischia di cadere continuamente (…)
nei tranelli e negli auto-inganni del paternalismo terapeutico: la catena delle
“dipendenze buone”, [e] il paziente continuerà a sentire la libertà, di cui
avverte la presenza, come qualcosa venutagli dal di fuori, non come il
risultato di una sua conquista”.[5]
Questo percorso, quindi, va
continuato nella vita reale, in quella organizzazione sociale da dove il malato
mentale era stato espulso.
La fase di transizione dal manicomio
al territorio, in un lavoro dentro/fuori l’istituzione fu realizzata fino in
fondo a Trieste dove Basaglia assunse la direzione dell’ospedale psichiatrico
nel 1971 e dove, nel 1977, ben prima della legge 180, il manicomio veniva
smantellato grazie anche al sostegno degli amministratori pubblici locali. Nasceva
così una forma di assistenza territoriale con la creazione dei Centri di salute
mentale nei quartieri della città, aperti 24 ore e di case, spesso dei gruppi
appartamento, dove i pazienti potevano riprendere a vivere e ad abitare.
La legge 180 codifica la
creazione di servizi psichiatrici territoriali a livello nazionale, ma
l’applicazione concreta della legge si è scontrata per anni con le resistenze
sia dei politici ed amministratori, sia dell’establishement della psichiatria.
Di fatto la legge di riforma
psichiatrica è stata applicata in Italia in modo non uniforme, a macchia di leopardo.
Come afferma Rocco Canosa,
presidente nazionale di Psichiatria Democratica, nella sua relazione al convegno
per i trent’anni di Psichiatria Democratica,“inizia così una fase difficile, in
cui i servizi più impegnati sul fronte antiistituzionale, in molte parti
d’Italia devono continuare a lottare contro la persistenza dei manicomi e nello
stesso tempo devono inventare le nuove istituzioni. La lotta al manicomio,
soprattutto al sud dell’Italia è intensa e faticosa. Bisogna opporsi ai padroni
dei manicomi pubblici e privati, ai comitati di affari, politicamente
trasversali che speculano sulla pelle dei ‘poveri matti’(…) Gli anni ’80 vedono
così affermarsi l’impegno per la costruzione dei nuovi servizi di salute
mentale”[6]
In questo impegno si acuiscono
anche le contraddizioni che il lavorare nel territorio pone agli operatori che
sono chiamati ad assumersi concretamente la responsabilità dei pazienti in
prima persona, attraverso una faticosa opera di mediazione tra bisogni degli
utenti e meccanismi difensivi della società.
Sempre di più appaiono celati nel
sintomo problemi solo apparentemente psichiatrici, ma che in realtà riguardano il
tema della povertà: povertà di denaro, di legami affettivi, di spazi di
socialità.
Nel suo nuovo ambito
d’intervento, il territorio, la psichiatria è chiamata ad assolvere il mandato
di coprire con la sua funzione di cura le contraddizioni di un’organizzazione
sociale che produce povertà, emarginazione ed esclusione.
Oggi, in Italia nella maggior
parte dei servizi territoriali della salute mentale, si continua a non
considerare, nella pratica, il nesso tra prercarietà sociale e malattia. In una
fase di smantellamento del welfare messo in atto dalle politiche neoliberali, le
condizioni di insicurezza legate alla mancanza e precarietà del lavoro
colpiscono un numero crescente di persone. La condizione di malessere che ne
consegue non può essere avulsa dalla organizzazione sociale che la determina ed
essere consegnata a dei tecnici che devono legittimarla, naturalizzarla e oggettivarla
come malattia.
Il movimento storico
antiistituzionale italiano aveva svelato la funzione di controllo sulla
marginalità, assunta dalla psichiatria manicomiale. Il movimento di Psichiatria
Democratica oggi denuncia sia le forme di neo-istituzionalizzazione presenti
nell’attuale impianto dei servizi della salute mentale e più in generale
nell’ambito socio sanitario, sia i nuovi dispositivi che in nome della salute e
della sicurezza, riducono gli spazi di autonomia delle persone, trasformate in
astratti fattori di rischio.
La questione dei diritti e della
lotta contro l’esclusione, da sempre al centro delle preoccupazioni di
Psichiatria Democratica, rappresentano la posta in gioco per la difesa della
democrazia in una situazione caratterizzata dai problemi dell’immigrazione e
dall’aumento delle disuguaglianze sociali. Il numero degli esclusi aumenta
sempre di più e la risposta che viene data ai problemi degli anziani, dei
tossicodipendenti, degli immigrati, dei giovani, rientra sempre di più nella
logica di una nuova istituzionalizzazione. Lo stesso destino spetta ai
« matti » che sono « sistemati » a volte per sempre, nelle
strutture protette e spesso sottomessi a dei processi di mortificazione e
cronicizzazione.
Allo stesso tempo i Centri di
Salute Mentale territoriali hanno sviluppato sempre di più un lavoro
iperspecialistico, preoccupati di erogare prestazioni puntuali e settoriali. In
una situazione di carenza di risorse e di personale, questi servizi della
riforma si riducono a piccoli ambulatori dove i pazienti attendono terapie farmacologiche,
visite psichiatriche e, nei migliori dei casi, psicoterapie.
Questo lavoro clinico, anche se
di buona qualità, (cosa che difficilmente accade), si produce in una logica di
separazione, al contrario della ricchezza che ha caratterizzato per anni gli interventi
che abbiamo condotto con i pazienti in un lavoro di promozione della salute e di
trasformazione reale delle loro condizioni di vita.
Prevale, oggi, la cultura della
separatezza degli interventi, sostenuta dalla logica degli “ambiti di
competenza”, anche quando i diversi servizi socio-sanitari lavorano insieme. Sempre
di più i servizi di salute mentale sono privati di risorse per realizzare
progetti che riguardano i bisogni delle persone e che investono su percorsi di
socializzazione, formazione al lavoro, inserimento lavorativo, di associazionismo
e di auto- aiuto di familiari e pazienti, percorsi in cui si crea l’effettiva
possibilità per i pazienti di esercitare un potere contrattuale.
Eppure oggi, nei programmi di
governo per la salute e la salute mentale, in Italia, così come nell’Unione Europea, sono assunte ed
enfatizzate la centralità del territorio, la valorizzazione delle risorse nel
tessuto sociale e si parla tanto di inclusione sociale. Questi programmi
sociali devono però conciliarsi con le logiche di governance che puntano sui
livelli di produttività, sulla buona programmazione della sanità ma che di
fatto vogliono, nel migliore dei casi, solo far quadrare i bilanci, come
succede in Italia nella gestione imprenditoriale della Sanità da parte delle
Aziende Sanitarie Locali.
In una società neoliberista in cui predomina l’efficientismo e si parla di risorse umane solo in termini di competizione economica (le cosiddette risorse “intangibili”, il cosiddetto “capitale umano”), che posto è riservato alle persone che risultano prive di queste risorse “bio-economiche” e che quindi sono considerate persone a “capitale umano scadente o cattivo”?
La nostra critica deve essere altrettanto attenta alla
maniera ambigua con la quale i servizi mettono in relazione i diritti e la
tutela: in effetti dietro la difesa dei più deboli può nascondersi la vecchia
logica dell’invalidazione dei pazienti.
Una forma di “tutela” in cui si
mette a tacere l’espressione soggettiva del bisogno e della sofferenza, in cui
lo spazio della proposta, della contrattualità e della negoziazione, da parte
del “curato” è inesistente o ridotta al minimo.
E’ la vera differenza tra le
« buone pratiche » enfatizzate dappertutto, che in realtà rischiano
di favorire un’inclusione sociale intesa come « buon adattamento » dell’assistito/curato
e le pratiche, invece, fondate su una “partecipazione concreta” dei pazienti
che possono esercitare un potere decisionale ed essere liberi di esprimere la
loro soggettività anche attraverso il dissenso ed il conflitto.
Il conflitto, in quanto
espressione soggettiva del bisogno, del dissenso e dell’autodeterminazione
della persona diventa, in questo tipo di organizzazione, un “ingrato” elemento
di disturbo che non deve avere spazio ma
va neutralizzato in quanto dissipatore di energie e puro momento rivendicativo.
Per noi non è così, come non lo è stato nella nostra
storia di lotta antiistituzionale. Non era così nel manicomio dove Basaglia
riconosceva proprio nei pazienti aggressivi quella condizione di irriducibilità
del soggetto che rendeva possibile creare un’alleanza per un progetto di
liberazione. Non lo è oggi in quei servizi di salute mentale dove il
protagonismo di utenti e familiari significa il diritto ad avanzare istanze proprie ed autonome, anche quando
dissentono e “confliggono” con le posizioni degli operatori.
Si tratta di servizi aperti ed accessibili che diventano
anche luoghi di socializzazione, che favoriscono le esperienze di
auto-mutuo-aiuto, che stimolano la creazione di cooperative sociali, che
valorizzano le risorse informali. Si tratta di case e di gruppi-appartamento di
piccole dimensioni e perfettamente integrati nel contesto cittadino. Si tratta
di nuovi soggetti di diritto che si affermano come associazioni di utenti e di famiglie.
Oggi l’Unione Europea mostra
attenzione alla salute mentale. Il libro Verde dell’ottobre 2005, pone come priorità
la deistituzionalizzazione dei servizi psichiatrici e la creazione dei servizi
di salute mentale nella comunità. Nel vostro paese è ugualmente forte l’impegno
a creare un sistema democratico di assistenza psichiatrica. L’Italia rappresenta,
per tutti, un punto di riferimento a cui ispirarsi e questo ci impone una
continua riflessione sulle pratiche e sull’organizzazione dei servizi.
Noi di Psichiatria Democratica
vogliamo continuare ad essere vigili e
critici rispetto alle logiche di programmazione e di gestione che si illudono
di controllare o di occultare i conflitti sociali dietro a nuovi paradigmi tecnici
e scientifici. Per questo rilanciamo il gusto delle contraddizioni e
continuiamo a praticare, pur tra tante difficoltà, una psichiatria che si
declina in una reale pratica democratica.
Ringrazio a nome di Psichiatria
Democratica, gli amici del CEDEP e gli
amici Rumeni per questa opportunità di
scambio e di riflessione comune.
· Psicologa, Italia, del Direttivo Nazionale di Psichiatria Democratica
[1] Basaglia F., Gallio G., la vocazione terapeutica. Per un’analisi critica alla “via italiana” alla riforma psichiatrica (1950-1978) in Aa.Vv., Salute mentale. Pragmatica e complessità, 2 voll., a c. di Debernardi, R. Mezzana, B. Norcio, Centro Studi e ricerche regionale per la salute mentale, Regione Friuli-Venezia Giulia, Trieste 1992,p.560
[2] Foucault M., Le pouvoir psychiatrique, Seuil/Gallimar,
Paris, 2003, p.57 (trad. it. Il potere
psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, p. 64)
[3] Basaglia F., Gallio G., cit.,
p. 561
[4] Ivi, p. 561
[5] Ivi, p. 561
[6] Canosa R. Psichiatria Democratica ha trent’anni :
la storia, le battaglie contro l’esclusione, le lotte per i diritti, i nuovi
impegni, Convegno Psichiatria Democratica- Trent’anni, Matera, nov. 2003