Martedì 18 Dicembre 2001
«Con persone così deboli
la sicurezza è essenziale - Risponde Emilio Lupo»

di EMANUELE PERUGINI

ROMA- Dalle ceneri del rogo di San Gregorio Magno si sprigionano nubi fosche e dense di polemiche. L'incubo delle manette, delle sbarre alle finestre e dei pazienti psichiatrici chiusi a chiave e lasciati soli nelle loro camerate-dormitori è tornato di nuovo alla ribalta dei resoconti della cronaca e ha gettato nell'angoscia non solo gli operatori sanitari, ma anche tutta l'opinione pubblica nazionale. Come è possibile continuare a morire in questo modo atroce all'alba del XXI secolo? Come fanno ad esistere ancora sul nostro territorio strutture sanitarie tanto inadeguate? Come vengono trattati i malati psichiatrici dopo la chiusura dei manicomi e l'avvio della legge 180? Di chi è la colpa di questa incuria?
Sono queste le domande che vengono immediatamente alla mente quando si guardano le orribili immagini del rogo. Abbiamo cercato delle risposte proprio dal segretario di una delle associazioni di operatori, Psichiatria Democratica, più attive sul fronte della riforma di questo settore, il professor Emilio Lupo.
Professore, dopo il rogo di San Gregorio Magno torna l’incubo della segregazione dei malati mentali?
«No. Piuttosto direi che quello che è successo a San Gregorio Magno è una questione che attiene alla sicurezza delle strutture e che non è esclusiva di questo particolare settore. La psichiatria ne soffre, è vero, ma né più né meno di quanto ne soffrano anche altre aree dei servizi pubblici, come la sanità o piuttosto la scuola. Un problema di sicurezza che nel caso di persone così deboli deve essere rafforzato».
Eppure si sono dati e si continuano a dare anche casi di abusi e di maltrattamenti.
«E' vero. La situazione delle strutture psichiatriche è molto varia. Accanto a quelle che potremmo definire esemplari (e ce ne sono in tutto il Paese da Trieste a Matera), ci sono anche luoghi e condizioni inaccettabili, ma è compito delle autorità sanitarie porvi rimedio. Molti sono poi i manicomi che hanno chiuso per finta. Si è cambiato il nome, ma ai malati si è continuato a dare lo stesso trattamento, che poi significa nessun trattamento specialistico, in cambio di una vera e propria reclusione. Anche casi di questo genere sono presenti in tutta Italia. In Sicilia però la situazione di alcune strutture sembra essere davvero grave. Proprio qualche tempo fa a Caltanissetta si è trovata una struttura di ospitalità nella quale i malati erano segregati e alle finestre delle stanze c'erano sbarre di ferro. Ora quelle sbarre sono state tolte, ma ai malati ancora non viene garantito un adeguato servizio sanitario».
Che cosa è cambiato nel nostro paese dopo l’approvazione della legge 180?
«Dopo la chiusura dei manicomi si è fatta molta strada, ma molta ancora è quella che deve essere percorsa. Se non siamo proprio all'anno zero della psichiatria, siamo all'anno uno e mezzo. Però ci tengo a ricordare che prima dell'entrata in vigore di questa legge ai malati psichiatrici non era riconosciuta alcuna dignità terapeutica. Erano semplicemente buttati lì da una parte e chiusi a chiave senza essere mai presi in cura. Ora le cose sono cambiate. Una nuova legge per esempio, quella che ha adottato il cosiddetto Progetto obiettivo per la tutela della salute mentale, ha individuato tutta una serie di percorsi e di standard di trattamento che devono essere conseguiti nelle diverse strutture abilitate. Purtroppo questa legge non è ancora stata recepita da tutte le regioni».
Di che cosa hanno bisogno le persone che sono afflitte da questo tipo di malattie?
«Il settore della salute mentale non può fare affidamento su tecniche specifiche. Con le persone che soffrono di queste patologie bisogna "sporcarsi le mani" e perseverare nel tentativo di recupero dei soggetti. È una lotta che va fatta caso per caso, senza recriminazioni di sorta. L'importante è lasciare aperti dei canali di comunicazione che non sono solo quelli di natura terapeutica, ma anche di natura sociale. Esperienze come le cooperative sociali, le case famiglia, se fatte nel pieno delle norme in vigore, si sono rivelate delle esperienze che hanno dato una nuova dignità a chi soffre di questi problemi. La cosa più importante è imparare che queste persone non devono essere escluse, ma anzi accolte anche in mezzo a noi. Della tragedia di San Gregorio la cosa che mi ha fatto più male è stata quella di saperli isolati, là in mezzo alle colline, lontano da tutti. Forse se fossero stati più vicino a noi, l'allarme sarebbe scattato prima».