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PSICHIATRIA DEMOCRATICA |
ALTR (E)(I) MENTI
pensieri, parole, gesti e
visioni in margine alla follia dei sani
convegno e
(dis)corso ECM di Psichiatria Democratica
Cavalese (TN) -
Palacongressi
di Rocco Canosa*
“Non ci deve
stupire dell’estrema importanza che io
attribuisco al mantenimento della quiete e dell’ordine in un ospedale per alienati
e dell’attenzione che riservo alle qualità fisiche e morali che una simile
sorveglianza richiede, poiché proprio in questo risiede una dei fondamenti del
trattamento della mania. Senza tutto ciò, infatti, non è possibile ottenere una
guarigione né osservazioni esatte né una guarigione permanente, quale che sia,
per altri versi, il ricorso ai medicamenti più noti e diffusi”.
E’ un’affermazione
di Pinel, il liberatore della donna folle della Bicetre, citato da Foucault, il
quale sottolinea. “E’ un ordine per il quale i corpi non sono altro che
superfici da attraversare, corpi da plasmare, un ordine che si esplica come
un’immensa nervatura di prescrizioni, di modo che gli stessi corpi siano
punteggiati e attraversati dall’ordine”.[1]
Quest’ordine è sorretto nel manicomio del XIX secolo, dal potere psichiatrico
che è un potere disciplinare, “ la cui
proprietà – dice Foucault - è quella di fabbricare corpi assoggettati…e la
disciplina è quella forma terminale,
capillare del potere che costituisce l’individuo come bersaglio, come
obiettivo, come interlocutore, come termine di confronto all’interno del
rapporto di potere”.[2]
Il potere
psichiatrico ha, però, una sua specificità: “è quel supplemento di potere per
mezzo del quale il reale è imposto alla follia in nome di una verità detenuta
una volta per tutte da quel potere sotto il nome di scienza medica, di
psichiatria”.[3]
Nell’ Ottocento,
questa scienza si autodefinisce tale perché si occupa dell’aspetto classificatorio
e nosografico delle malattie mentali e nello stesso tempo ricerca il suo
correlato anatomo-patologico. A ben guardare, però, questi due aspetti sono
stati sempre secondari nella pratica psichiatrica dei manicomi dell’epoca, sicuramente
orientata a far valere la ragione sulla follia, attraverso l’isolamento, la contenzione,
le docce fredde, le sedie rotatorie, i riti di spoliazione e di omologazione,
l’imposizione del lavoro: in altre parole, attraverso l’esibizione della forza
e la sottrazione della libertà.
La separazione
tra le teorie cosiddette “scientifiche” molto descrittive e sempre alla ricerca
del substrato organico, da un lato e le “cure” di tipo repressivo, dall’altro,
che si giustificavano attraverso l’autoreferenzialità “scientifica”, hanno
sempre caratterizzato l’istituzione manicomiale fino ai giorni nostri.
Nel XX secolo,
infatti, benché si assista all’ingresso di altre scienze dell’uomo come la
psicologia, la sociologia, la psicanalisi, il manicomio non muta la sua
funzione segregante, anzi l’accentua in
tutta Europa, attraverso l’affermazione del paradigma dell’irrecuperabilità e
della pericolosità, sancita per legge.
L’Italia, fino
agli anni ’50 è stata totalmente impermeabile alle nuove teorie che pure si
elaboravano nella prima metà del secolo scorso in Europa e Oltreoceano e che
oscillavano tra behaviorismo e psicanalisi. Si distinse, tuttavia, negli anni
trenta, Ugo Cerletti per le ricerche sullo shock elettrico effettuato sui
maiali da macellare, che approdarono all’applicazione dell’elettroshock
sull’uomo.
Nella stessa fase
si elaboravano teorie e tentativi d’applicazione del modello del settore in
Francia e della comunità terapeutica in Gran Bretagna.
Nella fase della
ricostruzione post-bellica era necessario recuperare forza-lavoro: pertanto era
più importante che la gente offrisse le sue braccia alla patria piuttosto che
rimanesse rinchiusa in un ospedale psichiatrico.
Questi tentativi
sono risultati, tuttavia, abbastanza limitati nel numero.
In Francia il modello
del settore, per il quale i servizi esterni avrebbero dovuto far da filtro ai
ricoveri in manicomio, non funzionò, inghiottito dalla forza dell’istituzione
manicomiale, spesso osteggiato dagli apparati politico-amministrativi, i quali,
troppo spesso, vedevano le innovazioni a favore dei matti come rischiose
rispetto all’acquisizione del consenso.
Queste
esperienze, se hanno avuto il merito di porre il problema del rapporto del
malato con il sociale, non hanno però intaccato la funzione di controllo ed
espulsione dell’oggetto di sempre della psichiatria: la povertà.
L’ospedale
psichiatrico, nel quale gli internati versano in condizioni subumane di
restrizione, fino alle situazioni scandalose di lager, assume al suo interno gli
scarti miseri della società, divenendo esso stesso miserevole.
Anche la
psichiatria segue lo stesso destino. Poiché si occupa dei matti poveri, diventa
la cenerentola della medicina e l’ancella umile della Neurologia.
In Italia, fino
agli anni ’60, i direttori dei manicomi o erano medici falliti o erano medici
critici da emarginare nello spazio di un manicomio.
Così, all’età di
38 anni, viene spedito a ricoprire l’incarico di Direzione dell’Ospedale
Psichiatrico di Gorizia. Basaglia constata subito che “ limiti forzati,
burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel
aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà. Ma la libertà di cui
parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del
legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla. Per questo, più di
due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e
mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri, richiedendone
l’urgente soluzione con formule che tengano finalmente conto dell’uomo nel suo
libero porsi nel mondo.
Lo psichiatra
sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del
malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La
necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello
spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, conferisce
al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli
eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello
dell’oggetto delle sue cure”.[4]
In altre parole
non era possibile praticare alcuna cura in una situazione di mancanza di
libertà.
Basaglia,
pertanto, dopo avere conosciuto l’esperienza della comunità terapeutica
realizzata da Maxwell Jones in Scozia, l’adotta nell’ospedale psichiatrico di
Gorizia.
Incomincia, così,
una straordinaria esperienza di trasformazione istituzionale: si slegano i malati,
si aprono le porte, si abbattono i cancelli.
“La ‘porta aperta’,
dice Basaglia come la prova definitiva dell’abbandono, da parte del medico, del
mondo dell’inganno, agisce sul malato dimostrandogli che lo psichiatra non vive
più nel culto del pessimismo di cui la società sembra ancora impregnata. Il
paziente sente il significato di questo atto prima della società che, tuttora
estranea a questi problemi, sembra riesca ad avvicinarli solo con un
paternalistico spirito pietista di cui il malato non ha bisogno. La ‘porta aperta’
(terrore dei nostri legislatori), l’abolizione delle grate, l’apertura dei
cancelli agisce profondamente, dandogli la percezione di vivere in un luogo di
cura nel quale può gradualmente riconquistare il suo rapporto con gli “altri”,
con chi lo cura, con i compagni.
Luogo di
istituzionalizzazione e di alienazione indotta, l’Ospedale Psichiatrico
potrebbe però rischiare di mutarsi - attraverso le nuove misure attuate - in
altro luogo di alienazione,se è organizzato come un mondo in sé compiuto, nel
quale tutti i bisogni sono soddisfatti, come in una gabbia d’oro.
Lo scioglimento
delle contenzioni fisiche ha attualmente liberato il malato dal suo stato di
soggezione alla “forza” cui, comunque,
riusciva deliberatamente e personalmente a ribellarsi - attraverso i suoi “eccessi”.
La libertà donatagli dal medico e dal nuovo clima ospedaliero può produrre ora
in lui uno stato di soggezione ancora più alienante, perché frammisto a
sentimenti di dedizione e di riconoscenza che lo legano al medico in un
rapporto ancora più stretto, più infrangibile, più profondamente mortificante e
distruttivo di qualsiasi contenzione fisica: un rapporto di assoluta soggezione
e dedizione al “buono” che si dedica a lui, che si china - dalla sua altezza -
ad ascoltarlo e non dice mai di no. Ciò non potrà che accelerare il processo
regressivo che lo spingerà a sprofondare gradualmente in un morbido, indolore
annientamento totale che chiamerei una sorta di istituzionalizzazione molle. Per questo il paziente continuerà a
sentire la libertà, di cui avverte la presenza, come qualcosa venutagli dal di
fuori, non come il risultato di una sua conquista. Così, per lungo tempo, -
dopo l’abolizione delle grate da lui stesso divelte e distrutte su invito del
medico - non andrà oltre il limite che gli era stato prima imposto: il disegno
del cortile resta nella sua mente e la porta aperta è per lui ancora una porta
chiusa”.[5]
Basaglia avverte,
dunque, il rischio di una dipendenza senza fine del malato. Di qui la grande
intuizione, che segna l’originalità dell’esperienza italiana rispetto ad altre realtà
avanzate nel resto del mondo (soprattutto in Francia, in Gran Bretagna e negli
Stati Uniti), di realizzare una psichiatria
senza manicomi.
Alla fine degli
anni ‘60/ inizi degli anni ‘70 Basaglia e i suoi collaboratori chiedono case
per i ricoverati da dimettere e centri di cura esterni all’ospedale di Gorozia.
Poiché l’équipe
riceve un netto rifiuto, si dimette, nel 1972. Incomincia, così una diaspora.
Basaglia è chiamato a dirigere il manicomio di Trieste, Pirella quello di
Arezzo, Slavich va a Ferrara.
Nella lettera di
congedo dell’équipe cosi si legge: “Quando uno di voi ha detto che la
trasformazione in atto nel nostro Ospedale non era opera dei medici ma che i
medici avevano messo le chiavi nella toppa e i malati le avevano poi girate per
aprire la porta, aveva dimostrato di aver capito quello che altri organi
responsabili non hanno ancora compreso…Per questo nel lasciarvi siamo sereni
anche se addolorati.”
Con l‘inizio
delle nuove esperienze, si fa più chiara l’opera del superamento definitivo del
manicomio, attraverso la deistituzionalizzazione, che può essere definita come lavoro
pratico di trasformazione che, a cominciare dal manicomio, cambia l’istituzione
ed il suo oggetto: non più la malattia, ma la sofferenza delle persone in
rapporto con il corpo sociale. Con la costituzione di primi Centri di Salute
Mentale e delle prime case – famiglia, già prima dell’avvento della legge 180,
la follia irrompe nel sociale, aprendo contraddizioni inedite.
Gli operatori,
dunque, sono chiamati ad assumersi concretamente la responsabilità dei pazienti
in prima persona, attraverso una faticosa opera di mediazione tra bisogni degli
utenti e meccanismi difensivi della società. Si amplifica enormemente il campo
di intervento, ma anche la delega degli apparati di problemi solo
apparentemente psichiatrici, ma che in realtà riguardano il tema della miseria:
di danaro, di spazi di socialità, di occasioni culturali, di legami affettivi.
La miseria, allora, si presenta frammentata e spesso, camuffata dal sintomo, è
difficilmente svelabile.
Nel tentativo di depurarsi
dallo “sporco” di ciò che non le compete, la psichiatria mette in campo un
formidabile apparato di tecniche farmacologiche e psy senza precedenti.
Questo fenomeno
alimenta un’illusione di terapia a tutti i costi, nella convinzione – falsa- di
essersi liberati dalla funzione di controllo e di custodia.
Si realizzano,
così, in Europa, come in Italia, ma con accentuazioni diversificate, servizi
territoriali che assumono contemporaneamente tre modelli:”Il modello medico,
che ha il suo luogo istituzionale di elezione nell’ospedale generale, e la sua
prestazione principale nella somministrazione di farmaci; il modello dell’aiuto
sociale, che privilegia le condizioni materiali di vita della persona e
fornisce assistenza sociale; il modello dell’ascolto terapeutico, che
privilegia il vissuto soggettivo e fornisce psicoterapie. Questa suddivisione
macroscopica si è concretizzata in una totale compartimentazione e assenza di
rapporti tra questi diversi tipi di servizio che si sono andati separando gli
uni dagli altri e si è articolata in una ulteriore specializzazione e
frammentazione per singoli tipi di prestazione. Questo sviluppo è
particolarmente visibile nel campo delle psicoterapie. … Per conseguenza,
questo modo specialistico e selettivo di funzionare dei servizi psichiatrici fa
sì che le persone vengano smistate, scaricate, palleggiate tra competenze
diverse e in definitiva non prese in carico e abbandonate a se stesse.
L’abbandono di cui erano accusate le politiche di deospedalizzazione è una
pratica quotidiana, anche se più soft e inapparente, dei servizi territoriali.
Questo abbandono produce nuova cronicità e alimenta la necessità di luoghi in
cui, temporaneamente, scaricare e internare i pazienti. ”[6]
Questi servizi,
confusi nelle nebbie dei tecnicismi, ignorano l’esistenza di una nuova
marginalità diffusa che ora tende ad essere confinata in un’area in cui sono
presenti l’ex degente del manicomio, il tossicodipendente, l’handicappato,
l’extracomunitario, l’anziano demente, il bambino irrequieto; insomma ogni
persona con “svantaggio” sociale, la cui domanda non giunge alle istituzioni se
non sotto forma di controllo o /e espulsione richiesti da altri.
Dopo la legge 180,
con la costruzione dei nuovi servizi, si sono acutizzate queste contraddizioni.
I Progetti
–Obiettivo del ‘94 e del ‘98 sono stati salutati anche dal movimento antistituzionale
come uno strumento valido su tutto il territorio nazionale per conferire ordine
e razionalità al sistema della salute mentale.
Hanno il pregio, in
realtà, di precisare le strutture costitutive di un Dipartimento di salute
mentale, si stabilire ruoli e funzioni del personale, di fissare degli
obiettivi ragionevoli.
A distanza di
anni, però, una riflessione critica si impone.
La difficoltà di
integrazione delle varie strutture tra loro, con gli altri servizi, con i
soggetti attivi della comunità, che sono la conseguenza di un approccio
iperspecialistico alla sofferenza, stanno riproducendo nelle strutture
costitutive dei Dipartimenti gli stessi meccanismi di cronicità, di
segmentazione dei bisogni e delle risposte, di esclusione soft, tipici del
manicomio.
In atre parole i
CSM sono sempre più ambulatorietti, servizi d’attesa scarsamente incisivi sul
contesto del paziente, i Centri Diurni aree di parcheggio per persone, che
tendono ad infastidire, le Strutture Residenziali abitazioni dove si sa quando
si entra, ma non si sa quando si esce, i Servizi di Diagnosi e Cura repartini
molto spesso con le porte chiuse e dove la contenzione fisica e quella
farmacologia sono spesso la norma.
Un panorama
davvero sconfortante.
Tutti questi
luoghi, se non ravvivati da una nuova carica antistituzionale, diventano
rapidamente le “istituzioni molli” di cui parlava Basaglia nel
Sono luoghi in
cui il rischio di dipendenza è molto forte, perché è alto il “potere disciplinare”,
nell’accezione foucaultiana.
Orari rigidi,
schede, cartelle, rating scales, assessment, sono procedure che non solo
ingessano il rapporto curante/curato, ma esprimono anche la riaffermazione di
una scienza psichiatrica, che, ammodernando l’oggettivazione del paziente,
continua ad essere autoreferenziale.
Sappiamo bene
come i dispositivi mortificanti tipici delle istituzioni totali si riproducano
anche nelle “nuove istituzioni”: imposizione della terapia farmacologia,
camuffata da consenso informato, imposizione della terapia occupazionale nei
centri diurni, attività di socializzazione offerte, ma molto spesso, decise
dall’alto, uso indiscriminato e per lunghi periodi di neurolettici, dipendenza
psicologica realizzata attraverso psicoterapie senza fine, regole rigide d’organizzazione
della giornata nelle comunità- alloggio plasmano menti e corpi, assoggettandoli
al potere della disciplina. Le categorie d’analisi utilizzate da Foucault rispetto
alla funzione della psichiatria all’interno dei manicomi dunque, sono
perfettamente valide anche per le attuali istituzioni della psichiatria.
Dis-solvere le psichiatrie significa, dunque,
riprendere l’attraversamento istituzionale, per decostruirne la funzione
disciplinare, come abbiamo imparato proprio lavorando dentro i manicomi per
distruggerli.
Come non era
possibile “curare” una persona ristretta nello spazio manicomiale, così non vi
può essere cura in un SPDC con le porte chiuse e con i malati legati.
Come non era
possibile che una persona esprimesse i suoi bisogni in un luogo separato e cronificante
come il manicomio, allo stesso modo non può farlo un paziente se sente di essere
ghettizzato in un Centro , isolato dal resto della comunità ed accessibile solo
ai “matti”.
Come era impossibile
che l’internato fosse riabilitato con l’ergoterapia, così non si può imporre un
lavoro umile ed umiliante ad un utente, definendo tutto questo ”inserimento
lavorativo”.
Come la scienza
psichiatrica è stata incapace ad assumere la globalità dei bisogni di una
persona soffrente, rinchiudendola in ospedale psichiatrico, così un Centro di
Salute Mentale non sarà in grado di capire il disagio di un paziente se si
limita a prescrivere frettolosamente qualche farmaco o somministrare qualche
psicoterapia.
Come il manicomio
ha utilizzato rituali di spoliazione dell’individualità, procedure di
assoggettamento dei corpi, così una comunità residenziale può agire le stesse
pratiche se utilizza regole rigide, facendo della disciplina uno strumento di
coercizione.
Voglio spingermi
più in là: forse è arrivato il momento non tanto di operare alcuni
aggiustamenti d’ingegneria istituzionale, da applicare ai vari servizi psichiatrici
di oggi, ma di porci l’obiettivo del loro totale superamento.
Invece di pensare
sempre ad un luogo dove depositare il matto che deve essere allontanato dalla
famiglia, come la struttura residenziale, perché non attivare l’affido
eterofamiliare, adeguatamente organizzato, esperienza che incomincia a
realizzarsi anche in Italia?
Invece di costituire
gli SPDC, in cui ancora più chiaramente si riproducono pratiche neomanicomiali
di costrizione, perché non pensiamo a realizzare Centri di Salute Mentale,
attivi 24 ore su 24, dotati di posti letto?
E perché quando
un paziente è in crisi seria, necessariamente dobbiamo ricoverarlo in un letto
di ospedale? Vi sono esperienze all’estero ed anche in Italia di gestione della
crisi a domicilio, sulle 24 ore, con l’utilizzo di un team appositamente
dedicato.
E ancora:
dobbiamo dare sempre per scontato che le case famiglia per pazienti gravi
(leggi ex lungodegenti) necessitino sempre dell’assistenza dell’operatore sulle
24 ore? Esiste l’esperienza di case autogestite, ma supportate da operatori
disponibili sulle 24 ore ad intervenire in caso di necessità.
Quale è, poi, la
motivazione tecnica per cui un Centro Diurno debba essere necessariamente zeppo
di psicologi, medici, educatori, infermieri? Non si può pensare di stimolare
l’autogestione? A dare agli utenti le chiavi del centro, così possano decidere
e fare autonomamente? (A Matera lo stiamo realizzando da tempo). E perché un Centro
Diurno necessita di una selezione dei pazienti all’ingresso? Di una scheda di
ammissione e dimissione? Non sarebbe meglio che tutto questo tempo e queste
energie gli operatori li impiegassero per favorire la contaminazione dei
cosiddetti “matti” con i cosiddetti “normali”? A costruire spazi d’incontro
scevro da pregiudizi, ma improntato al rispetto, all’ascolto dell’altro, semplicemente
allo “stare bene insieme”, tra uomini e donne e non tra pazzi e normali?
Tutte queste cose
non sono roba dell’altro mondo e le esperienze concrete dimostrano che è
possibile realizzarle.
Le difficoltà che
si incontrano sono due: la prima è legata al fatto che i professionisti psy non
vogliono rinunciare al potere che viene
loro dal ruolo: anzi i trend della ricerca, sia in campo psicologico, che in
quello delle neuroscienze, sono nel solco del suo rafforzamento; la seconda
dipende dagli interessi dei soggetti privati, incluso il privato sociale.
Comunità, Centri Diurni, perfino assistenza domiciliare sono un buon business
realizzato sulla pelle dei matti. Per questo si assiste, oggi, al rilancio
delle case di cura neuropsichiatriche, ma anche al moltiplicarsi di residenze
psichiatriche e strutture semiresidenziali gestite sia dal privato
imprenditoriale che da cooperative sociali. Significano appalti, posti di
lavoro, strumenti di costruzione del consenso elettorale da parte dei politici,
come appunto erano i manicomi, che offrivano occupazione in cambio di voti.
Dis-solvere le
psichiatrie significa, dunque, analizzare di nuovo come funzionano le
istituzioni del controllo sociale e, pertanto, non solo quelle psichiatriche;
capire concretamente da cosa e da chi è costituito il circuito psichiatrico in
un territorio dato, per evitare che la presa in carico indiscriminata, da parte
dei servizi di salute mentale, di una persona con disagio rafforzi lo stigma.
Dis-solvere le
psichiatrie significa avere consapevolezza che da soli, come tecnici psy, non
possiamo farcela. Abbiamo bisogno delle intelligenze, le più varie, delle
capacità d’iniziativa, le più efficaci, dei progetti, i più articolati e
continuativi, della partecipazione, la più ampia, della speranza, la più
tenace.
Dis-solvere le
psichiatrie significa avere il coraggio di rinunciare, sia pure in parte, a
quel potere psichiatrico che vuole imporre la realtà alla follia, come accadeva
nel manicomio. Sappiamo come andata: questa operazione è miseramente fallita e i
matti, prima ridotti al silenzio, hanno cominciato a parlare e a reclamare i
propri diritti. Ciò è accaduto nel momento in cui la psichiatria non si è più
percepita come scienza che sa tutto del comportamento umano, ma ha cominciato
ad aprirsi ad altri saperi e al sociale, qui nell’accezione di luogo in cui avvengono
incontri e scontri, in cui i sogni entrano in collisione con gli interessi, i
progetti di cambiamento con la realpolitik: insomma sociale come spazio in cui
i rapporti si declinano dentro le contraddizioni.
Ciò ha reso
possibile che il curante non si nascondesse dietro la maschera di chi sa bene
cosa fare e il curato dietro la corazza dei suoi sintomi. L’incontro, reso
possibile dall’assunzione del rischio da parte di entrambi, di perdere
qualcosa, ha svelato la verità dei volti, ha favorito l’incrocio degli sguardi,
ha diluito antiche paure. Non più malato e dottore ma persone, solo persone.
Finalmente.
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Indirizzo e-mail
dell’Autore:
* Direttore DSM AL n. 4 – Matera
Presidente Naz. di Psichiatria Deocratica
[1] Foucault M., Le pouvoir psychiatrique,
Seuil/Gallimard, Paris, 2003 (trad. it. Il
potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, pag.14)
[2] Foucault M., ivi, pagg. 64-65
[3] Foucault M, ivi, pag. 128
[4] Basaglia F, La distruzione dell’ospedale psichiatrico
come luogo di istituzionalizzazione, Comunicazione al Royal College of
Psychiatrists, Londra 1964
[5] Basaglia F., ivi
[6] De Leonardis O, Rotelli F., Deistituzionalizzazione, un’altra via, Centro di Documentazione “Salute Mentale” FVG