PSICHIATRIA DEMOCRATICA

 

ALTR (E)(I) MENTI

pensieri, parole, gesti e visioni in margine alla follia dei sani 

convegno  e (dis)corso  ECM di Psichiatria Democratica 

(22) 23-24-25 settembre 2004 

Cavalese (TN)  -   Palacongressi

 

 

OLTRE LA SALUTE MENTALE: OVVERO DIS-SOLVERE LE PSICHIATRIE

di Rocco Canosa*

“Non ci deve stupire  dell’estrema importanza che io attribuisco al mantenimento della quiete e dell’ordine in un ospedale per alienati e dell’attenzione che riservo alle qualità fisiche e morali che una simile sorveglianza richiede, poiché proprio in questo risiede una dei fondamenti del trattamento della mania. Senza tutto ciò, infatti, non è possibile ottenere una guarigione né osservazioni esatte né una guarigione permanente, quale che sia, per altri versi, il ricorso ai medicamenti più noti e diffusi”.

 

E’ un’affermazione di Pinel, il liberatore della donna folle della Bicetre, citato da Foucault, il quale sottolinea. “E’ un ordine per il quale i corpi non sono altro che superfici da attraversare, corpi da plasmare, un ordine che si esplica come un’immensa nervatura di prescrizioni, di modo che gli stessi corpi siano punteggiati e attraversati dall’ordine”.[1] Quest’ordine è sorretto nel manicomio del XIX secolo, dal potere psichiatrico che è un potere disciplinare,  “ la cui proprietà – dice Foucault - è quella di fabbricare corpi assoggettati…e la disciplina è quella  forma terminale, capillare del potere che costituisce l’individuo come bersaglio, come obiettivo, come interlocutore, come termine di confronto all’interno del rapporto di potere”.[2]

 

Il potere psichiatrico ha, però, una sua specificità: “è quel supplemento di potere per mezzo del quale il reale è imposto alla follia in nome di una verità detenuta una volta per tutte da quel potere sotto il nome di scienza medica, di psichiatria”.[3]

 

Nell’ Ottocento, questa scienza si autodefinisce tale perché si occupa dell’aspetto classificatorio e nosografico delle malattie mentali e nello stesso tempo ricerca il suo correlato anatomo-patologico. A ben guardare, però, questi due aspetti sono stati sempre secondari nella pratica psichiatrica dei manicomi dell’epoca, sicuramente orientata a far valere la ragione sulla follia, attraverso l’isolamento, la contenzione, le docce fredde, le sedie rotatorie, i riti di spoliazione e di omologazione, l’imposizione del lavoro: in altre parole, attraverso l’esibizione della forza e la sottrazione della libertà.

 

La separazione tra le teorie cosiddette “scientifiche” molto descrittive e sempre alla ricerca del substrato organico, da un lato e le “cure” di tipo repressivo, dall’altro, che si giustificavano attraverso l’autoreferenzialità “scientifica”, hanno sempre caratterizzato l’istituzione manicomiale fino ai giorni nostri.

 

Nel XX secolo, infatti, benché si assista all’ingresso di altre scienze dell’uomo come la psicologia, la sociologia, la psicanalisi, il manicomio non muta la sua funzione segregante,  anzi l’accentua in tutta Europa, attraverso l’affermazione del paradigma dell’irrecuperabilità e della pericolosità, sancita per legge.

 

L’Italia, fino agli anni ’50 è stata totalmente impermeabile alle nuove teorie che pure si elaboravano nella prima metà del secolo scorso in Europa e Oltreoceano e che oscillavano tra behaviorismo e psicanalisi. Si distinse, tuttavia, negli anni trenta, Ugo Cerletti per le ricerche sullo shock elettrico effettuato sui maiali da macellare, che approdarono all’applicazione dell’elettroshock sull’uomo.

 

Nella stessa fase si elaboravano teorie e tentativi d’applicazione del modello del settore in Francia e della comunità terapeutica in Gran Bretagna.

 

Nella fase della ricostruzione post-bellica era necessario recuperare forza-lavoro: pertanto era più importante che la gente offrisse le sue braccia alla patria piuttosto che rimanesse rinchiusa in un ospedale psichiatrico.

 

Questi tentativi sono risultati, tuttavia, abbastanza limitati nel numero.

 

In Francia il modello del settore, per il quale i servizi esterni avrebbero dovuto far da filtro ai ricoveri in manicomio, non funzionò, inghiottito dalla forza dell’istituzione manicomiale, spesso osteggiato dagli apparati politico-amministrativi, i quali, troppo spesso, vedevano le innovazioni a favore dei matti come rischiose rispetto all’acquisizione del consenso.

 

Queste esperienze, se hanno avuto il merito di porre il problema del rapporto del malato con il sociale, non hanno però intaccato la funzione di controllo ed espulsione dell’oggetto di sempre della psichiatria: la povertà.

 

L’ospedale psichiatrico, nel quale gli internati versano in condizioni subumane di restrizione, fino alle situazioni scandalose di lager, assume al suo interno gli scarti miseri della società, divenendo esso stesso miserevole.

 

Anche la psichiatria segue lo stesso destino. Poiché si occupa dei matti poveri, diventa la cenerentola della medicina e l’ancella umile della Neurologia.

 

In Italia, fino agli anni ’60, i direttori dei manicomi o erano medici falliti o erano medici critici da emarginare nello spazio di un manicomio.

 

Franco Basaglia apparteneva alla seconda categoria.

 

Così, all’età di 38 anni, viene spedito a ricoprire l’incarico di Direzione dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Basaglia constata subito che “ limiti forzati, burocrazia, autoritarismo regolano la vita degli internati per i quali già Pinel aveva clamorosamente reclamato il diritto alla libertà. Ma la libertà di cui parlava Pinel era stata concessa in uno spazio chiuso, messa nelle mani del legislatore e del medico che dovevano dosarla e tutelarla. Per questo, più di due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene, regole forzate e mortificazioni segnano ancora il ritmo della vita dei ricoveri, richiedendone l’urgente soluzione con formule che tengano finalmente conto dell’uomo nel suo libero porsi nel mondo.

Lo psichiatra sembra, infatti, riscoprire solo oggi che il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà di cui finora egli stesso lo aveva privato. La necessità di un regime, di un sistema nella complessa organizzazione dello spazio chiuso nel quale il malato mentale è stato isolato per secoli, conferisce al medico il solo ruolo di sorvegliante, di tutore interno, di moderatore degli eccessi cui la malattia poteva portare: il valore del sistema superava quello dell’oggetto delle sue cure”.[4]

 

In altre parole non era possibile praticare alcuna cura in una situazione di mancanza di libertà.

 

Basaglia, pertanto, dopo avere conosciuto l’esperienza della comunità terapeutica realizzata da Maxwell Jones in Scozia, l’adotta nell’ospedale psichiatrico di Gorizia.

Incomincia, così, una straordinaria esperienza di trasformazione istituzionale: si slegano i malati, si aprono le porte, si abbattono i cancelli.

“La ‘porta aperta’, dice Basaglia come la prova definitiva dell’abbandono, da parte del medico, del mondo dell’inganno, agisce sul malato dimostrandogli che lo psichiatra non vive più nel culto del pessimismo di cui la società sembra ancora impregnata. Il paziente sente il significato di questo atto prima della società che, tuttora estranea a questi problemi, sembra riesca ad avvicinarli solo con un paternalistico spirito pietista di cui il malato non ha bisogno. La ‘porta aperta’ (terrore dei nostri legislatori), l’abolizione delle grate, l’apertura dei cancelli agisce profondamente, dandogli la percezione di vivere in un luogo di cura nel quale può gradualmente riconquistare il suo rapporto con gli “altri”, con chi lo cura, con i compagni.

Luogo di istituzionalizzazione e di alienazione indotta, l’Ospedale Psichiatrico potrebbe però rischiare di mutarsi - attraverso le nuove misure attuate - in altro luogo di alienazione,se è organizzato come un mondo in sé compiuto, nel quale tutti i bisogni sono soddisfatti, come in una gabbia d’oro.

Lo scioglimento delle contenzioni fisiche ha attualmente liberato il malato dal suo stato di soggezione  alla “forza” cui, comunque, riusciva deliberatamente e personalmente a ribellarsi - attraverso i suoi “eccessi”. La libertà donatagli dal medico e dal nuovo clima ospedaliero può produrre ora in lui uno stato di soggezione ancora più alienante, perché frammisto a sentimenti di dedizione e di riconoscenza che lo legano al medico in un rapporto ancora più stretto, più infrangibile, più profondamente mortificante e distruttivo di qualsiasi contenzione fisica: un rapporto di assoluta soggezione e dedizione al “buono” che si dedica a lui, che si china - dalla sua altezza - ad ascoltarlo e non dice mai di no. Ciò non potrà che accelerare il processo regressivo che lo spingerà a sprofondare gradualmente in un morbido, indolore annientamento totale che chiamerei una sorta di istituzionalizzazione molle. Per questo il paziente continuerà a sentire la libertà, di cui avverte la presenza, come qualcosa venutagli dal di fuori, non come il risultato di una sua conquista. Così, per lungo tempo, - dopo l’abolizione delle grate da lui stesso divelte e distrutte su invito del medico - non andrà oltre il limite che gli era stato prima imposto: il disegno del cortile resta nella sua mente e la porta aperta è per lui ancora una porta chiusa”.[5]

 

Basaglia avverte, dunque, il rischio di una dipendenza senza fine del malato. Di qui la grande intuizione, che segna l’originalità dell’esperienza italiana rispetto ad altre realtà avanzate nel resto del mondo (soprattutto in Francia, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti), di realizzare una psichiatria senza manicomi.

 

Alla fine degli anni ‘60/ inizi degli anni ‘70 Basaglia e i suoi collaboratori chiedono case per i ricoverati da dimettere e centri di cura esterni all’ospedale di Gorozia.

Poiché l’équipe riceve un netto rifiuto, si dimette, nel 1972. Incomincia, così una diaspora. Basaglia è chiamato a dirigere il manicomio di Trieste, Pirella quello di Arezzo, Slavich va a Ferrara.

 

Nella lettera di congedo dell’équipe cosi si legge: “Quando uno di voi ha detto che la trasformazione in atto nel nostro Ospedale non era opera dei medici ma che i medici avevano messo le chiavi nella toppa e i malati le avevano poi girate per aprire la porta, aveva dimostrato di aver capito quello che altri organi responsabili non hanno ancora compreso…Per questo nel lasciarvi siamo sereni anche se addolorati.”

 

Con l‘inizio delle nuove esperienze, si fa più chiara l’opera del superamento definitivo del manicomio, attraverso la deistituzionalizzazione, che può essere definita come lavoro pratico di trasformazione che, a cominciare dal manicomio, cambia l’istituzione ed il suo oggetto: non più la malattia, ma la sofferenza delle persone in rapporto con il corpo sociale. Con la costituzione di primi Centri di Salute Mentale e delle prime case – famiglia, già prima dell’avvento della legge 180, la follia irrompe nel sociale, aprendo contraddizioni inedite.

 

Gli operatori, dunque, sono chiamati ad assumersi concretamente la responsabilità dei pazienti in prima persona, attraverso una faticosa opera di mediazione tra bisogni degli utenti e meccanismi difensivi della società. Si amplifica enormemente il campo di intervento, ma anche la delega degli apparati di problemi solo apparentemente psichiatrici, ma che in realtà riguardano il tema della miseria: di danaro, di spazi di socialità, di occasioni culturali, di legami affettivi. La miseria, allora, si presenta frammentata e spesso, camuffata dal sintomo, è difficilmente svelabile.

Nel tentativo di depurarsi dallo “sporco” di ciò che non le compete, la psichiatria mette in campo un formidabile apparato di tecniche farmacologiche e psy senza precedenti.

Questo fenomeno alimenta un’illusione di terapia a tutti i costi, nella convinzione – falsa- di essersi liberati dalla funzione di controllo e di custodia.

Si realizzano, così, in Europa, come in Italia, ma con accentuazioni diversificate, servizi territoriali che assumono contemporaneamente tre modelli:”Il modello medico, che ha il suo luogo istituzionale di elezione nell’ospedale generale, e la sua prestazione principale nella somministrazione di farmaci; il modello dell’aiuto sociale, che privilegia le condizioni materiali di vita della persona e fornisce assistenza sociale; il modello dell’ascolto terapeutico, che privilegia il vissuto soggettivo e fornisce psicoterapie. Questa suddivisione macroscopica si è concretizzata in una totale compartimentazione e assenza di rapporti tra questi diversi tipi di servizio che si sono andati separando gli uni dagli altri e si è articolata in una ulteriore specializzazione e frammentazione per singoli tipi di prestazione. Questo sviluppo è particolarmente visibile nel campo delle psicoterapie. … Per conseguenza, questo modo specialistico e selettivo di funzionare dei servizi psichiatrici fa sì che le persone vengano smistate, scaricate, palleggiate tra competenze diverse e in definitiva non prese in carico e abbandonate a se stesse. L’abbandono di cui erano accusate le politiche di deospedalizzazione è una pratica quotidiana, anche se più soft e inapparente, dei servizi territoriali. Questo abbandono produce nuova cronicità e alimenta la necessità di luoghi in cui, temporaneamente, scaricare e internare i pazienti. ”[6]

 

Questi servizi, confusi nelle nebbie dei tecnicismi, ignorano l’esistenza di una nuova marginalità diffusa che ora tende ad essere confinata in un’area in cui sono presenti l’ex degente del manicomio, il tossicodipendente, l’handicappato, l’extracomunitario, l’anziano demente, il bambino irrequieto; insomma ogni persona con “svantaggio” sociale, la cui domanda non giunge alle istituzioni se non sotto forma di controllo o /e espulsione richiesti da altri.

Dopo la legge 180, con la costruzione dei nuovi servizi, si sono acutizzate queste contraddizioni.

I Progetti –Obiettivo del ‘94 e del ‘98 sono stati salutati anche dal movimento antistituzionale come uno strumento valido su tutto il territorio nazionale per conferire ordine e razionalità al sistema della salute mentale.

Hanno il pregio, in realtà, di precisare le strutture costitutive di un Dipartimento di salute mentale, si stabilire ruoli e funzioni del personale, di fissare degli obiettivi ragionevoli.

 

A distanza di anni, però, una riflessione critica si impone.

La difficoltà di integrazione delle varie strutture tra loro, con gli altri servizi, con i soggetti attivi della comunità, che sono la conseguenza di un approccio iperspecialistico alla sofferenza, stanno riproducendo nelle strutture costitutive dei Dipartimenti gli stessi meccanismi di cronicità, di segmentazione dei bisogni e delle risposte, di esclusione soft, tipici del manicomio.

In atre parole i CSM sono sempre più ambulatorietti, servizi d’attesa scarsamente incisivi sul contesto del paziente, i Centri Diurni aree di parcheggio per persone, che tendono ad infastidire, le Strutture Residenziali abitazioni dove si sa quando si entra, ma non si sa quando si esce, i Servizi di Diagnosi e Cura repartini molto spesso con le porte chiuse e dove la contenzione fisica e quella farmacologia sono spesso la norma.

 

Un panorama davvero sconfortante.

Tutti questi luoghi, se non ravvivati da una nuova carica antistituzionale, diventano rapidamente le “istituzioni molli” di cui parlava Basaglia nel 1964, a proposito del manicomio umanizzato.

Sono luoghi in cui il rischio di dipendenza è molto forte, perché è alto il “potere disciplinare”, nell’accezione foucaultiana.

 

Orari rigidi, schede, cartelle, rating scales, assessment, sono procedure che non solo ingessano il rapporto curante/curato, ma esprimono anche la riaffermazione di una scienza psichiatrica, che, ammodernando l’oggettivazione del paziente, continua ad essere autoreferenziale.

 

Sappiamo bene come i dispositivi mortificanti tipici delle istituzioni totali si riproducano anche nelle “nuove istituzioni”: imposizione della terapia farmacologia, camuffata da consenso informato, imposizione della terapia occupazionale nei centri diurni, attività di socializzazione offerte, ma molto spesso, decise dall’alto, uso indiscriminato e per lunghi periodi di neurolettici, dipendenza psicologica realizzata attraverso psicoterapie senza fine, regole rigide d’organizzazione della giornata nelle comunità- alloggio plasmano menti e corpi, assoggettandoli al potere della disciplina. Le categorie d’analisi utilizzate da Foucault rispetto alla funzione della psichiatria all’interno dei manicomi dunque, sono perfettamente valide anche per le attuali istituzioni della psichiatria.

Dis-solvere le psichiatrie significa, dunque, riprendere l’attraversamento istituzionale, per decostruirne la funzione disciplinare, come abbiamo imparato proprio lavorando dentro i manicomi per distruggerli.

 

Come non era possibile “curare” una persona ristretta nello spazio manicomiale, così non vi può essere cura in un SPDC con le porte chiuse e con i malati legati.

Come non era possibile che una persona esprimesse i suoi bisogni in un luogo separato e cronificante come il manicomio, allo stesso modo non può farlo un paziente se sente di essere ghettizzato in un Centro , isolato dal resto della comunità ed accessibile solo ai “matti”.

Come era impossibile che l’internato fosse riabilitato con l’ergoterapia, così non si può imporre un lavoro umile ed umiliante ad un utente, definendo tutto questo ”inserimento lavorativo”.

 

Come la scienza psichiatrica è stata incapace ad assumere la globalità dei bisogni di una persona soffrente, rinchiudendola in ospedale psichiatrico, così un Centro di Salute Mentale non sarà in grado di capire il disagio di un paziente se si limita a prescrivere frettolosamente qualche farmaco o somministrare qualche psicoterapia.

Come il manicomio ha utilizzato rituali di spoliazione dell’individualità, procedure di assoggettamento dei corpi, così una comunità residenziale può agire le stesse pratiche se utilizza regole rigide, facendo della disciplina uno strumento di coercizione.

 

Voglio spingermi più in là: forse è arrivato il momento non tanto di operare alcuni aggiustamenti d’ingegneria istituzionale, da applicare ai vari servizi psichiatrici di oggi, ma di porci l’obiettivo del loro totale superamento.

 

Invece di pensare sempre ad un luogo dove depositare il matto che deve essere allontanato dalla famiglia, come la struttura residenziale, perché non attivare l’affido eterofamiliare, adeguatamente organizzato, esperienza che incomincia a realizzarsi anche in Italia?   

Invece di costituire gli SPDC, in cui ancora più chiaramente si riproducono pratiche neomanicomiali di costrizione, perché non pensiamo a realizzare Centri di Salute Mentale, attivi 24 ore su 24, dotati di posti letto?

E perché quando un paziente è in crisi seria, necessariamente dobbiamo ricoverarlo in un letto di ospedale? Vi sono esperienze all’estero ed anche in Italia di gestione della crisi a domicilio, sulle 24 ore, con l’utilizzo di un team appositamente dedicato.

E ancora: dobbiamo dare sempre per scontato che le case famiglia per pazienti gravi (leggi ex lungodegenti) necessitino sempre dell’assistenza dell’operatore sulle 24 ore? Esiste l’esperienza di case autogestite, ma supportate da operatori disponibili sulle 24 ore ad intervenire in caso di necessità.

Quale è, poi, la motivazione tecnica per cui un Centro Diurno debba essere necessariamente zeppo di psicologi, medici, educatori, infermieri? Non si può pensare di stimolare l’autogestione? A dare agli utenti le chiavi del centro, così possano decidere e fare autonomamente? (A Matera lo stiamo realizzando da tempo). E perché un Centro Diurno necessita di una selezione dei pazienti all’ingresso? Di una scheda di ammissione e dimissione? Non sarebbe meglio che tutto questo tempo e queste energie gli operatori li impiegassero per favorire la contaminazione dei cosiddetti “matti” con i cosiddetti “normali”? A costruire spazi d’incontro scevro da pregiudizi, ma improntato al rispetto, all’ascolto dell’altro, semplicemente allo “stare bene insieme”, tra uomini e donne e non tra pazzi e normali?

Tutte queste cose non sono roba dell’altro mondo e le esperienze concrete dimostrano che è possibile realizzarle.

Le difficoltà che si incontrano sono due: la prima è legata al fatto che i professionisti psy non vogliono rinunciare al potere che  viene loro dal ruolo: anzi i trend della ricerca, sia in campo psicologico, che in quello delle neuroscienze, sono nel solco del suo rafforzamento; la seconda dipende dagli interessi dei soggetti privati, incluso il privato sociale. Comunità, Centri Diurni, perfino assistenza domiciliare sono un buon business realizzato sulla pelle dei matti. Per questo si assiste, oggi, al rilancio delle case di cura neuropsichiatriche, ma anche al moltiplicarsi di residenze psichiatriche e strutture semiresidenziali gestite sia dal privato imprenditoriale che da cooperative sociali. Significano appalti, posti di lavoro, strumenti di costruzione del consenso elettorale da parte dei politici, come appunto erano i manicomi, che offrivano occupazione in cambio di voti.

Dis-solvere le psichiatrie significa, dunque, analizzare di nuovo come funzionano le istituzioni del controllo sociale e, pertanto, non solo quelle psichiatriche; capire concretamente da cosa e da chi è costituito il circuito psichiatrico in un territorio dato, per evitare che la presa in carico indiscriminata, da parte dei servizi di salute mentale, di una persona con disagio rafforzi lo stigma.

Dis-solvere le psichiatrie significa avere consapevolezza che da soli, come tecnici psy, non possiamo farcela. Abbiamo bisogno delle intelligenze, le più varie, delle capacità d’iniziativa, le più efficaci, dei progetti, i più articolati e continuativi, della partecipazione, la più ampia, della speranza, la più tenace.

Dis-solvere le psichiatrie significa avere il coraggio di rinunciare, sia pure in parte, a quel potere psichiatrico che vuole imporre la realtà alla follia, come accadeva nel manicomio. Sappiamo come andata: questa operazione è miseramente fallita e i matti, prima ridotti al silenzio, hanno cominciato a parlare e a reclamare i propri diritti. Ciò è accaduto nel momento in cui la psichiatria non si è più percepita come scienza che sa tutto del comportamento umano, ma ha cominciato ad aprirsi ad altri saperi e al sociale, qui nell’accezione di luogo in cui avvengono incontri e scontri, in cui i sogni entrano in collisione con gli interessi, i progetti di cambiamento con la realpolitik: insomma sociale come spazio in cui i rapporti si declinano dentro le contraddizioni.

Ciò ha reso possibile che il curante non si nascondesse dietro la maschera di chi sa bene cosa fare e il curato dietro la corazza dei suoi sintomi. L’incontro, reso possibile dall’assunzione del rischio da parte di entrambi, di perdere qualcosa, ha svelato la verità dei volti, ha favorito l’incrocio degli sguardi, ha diluito antiche paure. Non più malato e dottore ma persone, solo persone. Finalmente.

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Indirizzo e-mail dell’Autore:

r.canosa@tin.it

 



 



* Direttore DSM AL n. 4 – Matera

Presidente Naz. di Psichiatria Deocratica

[1] Foucault M., Le pouvoir psychiatrique, Seuil/Gallimard, Paris, 2003 (trad. it. Il potere psichiatrico, Feltrinelli, Milano 2004, pag.14)

[2] Foucault M., ivi, pagg. 64-65

[3] Foucault M, ivi, pag. 128

[4] Basaglia F, La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione, Comunicazione al Royal College of Psychiatrists, Londra 1964

[5] Basaglia F., ivi

[6] De Leonardis O, Rotelli F., Deistituzionalizzazione, un’altra via, Centro di Documentazione “Salute Mentale” FVG