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PSICHIATRIA DEMOCRATICA |
di
“La
tua sofferenza e la tua singolarità, sappiamo di loro abbastanza cose (che
tu neanche immagini) per capire che si tratta di una malattia; ma questa malattia,
la conosciamo abbastanza per sapere che tu non puoi esercitare su di essa
e nei suoi riguardi alcun diritto. La tua pazzia, la nostra scienza ci permette
di chiamarla malattia e perciò, noi medici siamo qualificati per intervenire
e diagnosticare in te una pazzia che ti impedisce di essere un malato come
gli altri: dunque tu sarai un malato mentale”. (1)
E’
un dialogo tra un medico ed un malato mentale, immaginato da Foucault, il quale
vuol evidenziare il potere assoluto della non pazzia sulla pazzia, della
normalità sulla devianza.
La
persona, spogliata di ogni soggettività, di ogni forma di sapere e di potere, è
oggettivata nella sua malattia.
“Le
relazioni di potere costituivano l’a priori della pratica psichiatrica: esse
condizionavano il funzionamento dell’istituzione manicomiale, esse vi distribuivano
i rapporti tra gli individui, esse gestivano le forme dell’intervento medico”(2)
– continua Foucault.
Il
movimento antistituzionale italiano ha avuto il merito non solo di restituire i
diritti negati alle persone, ma anche di riconoscere il diritto di ammalarsi e
di gestire la propria follia, separando la sofferenza dallo statuto medico di
malattia.
In
questa relazione curante/curato, si ha l’impressione che anche nelle realtà più
avanzate nella salute mentale, vi sia una scarsa riflessione sul ruolo del
farmaco: come se la sua conoscenza e
il suo uso debbano continuare ad essere esclusivo appannaggio del mondo
medico. Di fatto l’atto della
somministrazione del farmaco si configura come il momento più alto in cui sapere
e potere medico coincidono, come conseguenza di un processo concatenato
d’osservazione, classificazione, diagnosi, assolutamente sovrapponibile al
procedimento clinico degli alienisti del XIX secolo, caratterizzato dalla
riduzione della follia a malattia classificabile, con una sintomatologia da
controllare e ridurre al silenzio.
La
verità scientifica, oggettiva, di cui il farmaco ha la pretesa di essere portatore,
si fonda sulla sperimentazione, che produce fenomeni. “Questa produzione di
fenomeni nella sperimentazione è il più lontano possibile dalla produzione
di verità nella prova: poiché essi sono ripetibili, possono e debbono essere
constati, controllati e misurati. La sperimentazione non è altro che un’indagine
condotta su fatti provocati artificialmente; è solo un modo di accertare una
verità attraverso una tecnica i cui dati sono universali”(3).
Una verità astratta.
Storicamente
(pensiamo al secolo XVIII e XIX) questa grande trasformazione delle procedure
del sapere accompagna i mutamenti essenziali delle società occidentali:
l’emergenza della forma dello stato, l’estensione delle relazioni mercantili su
scala mondiale, la realizzazione di grandi tecniche di
produzione.
Il
XX secolo, nel suo ultimo scorcio, è, invece, caratterizzato dal corto circuito
tra le modalità del mercato mondiale, già sviluppatosi nei secoli scorsi, e
quelle della produzione che, da locali, divengono planetarie e delocalizzate: è
la mondializzazione.
Scrive
Bordieu: “Tutto ciò che va sotto il termine, assieme descrittivo e normativo
di “mondializzazione”, non è il prodotto della fatalità economica, ma di una
politica consapevole e deliberata…che si è imposta per le vie più diverse,
specie giuridiche, ai governi liberali o anche socialdemocratici di un complesso
di paese economicamente avanzati, inducendoli a spogliarsi poco a poco di
ogni potere di controllo sulle forze economiche”(4).
In effetti il WTO (World Trade Organisation)
Tutti
applaudirono entusiasti. In altre parole la sovranità degli stati è sottoposta
al potere del capitale finanziario globalizzato.
In
realtà 225 privati al mondo detengono mille miliardi di dollari, pari al reddito
di 2,5 miliardi di persone più povere del pianeta che rappresentano il 47% della
popolazione mondiale. Tra il 1975 e il 1996 sono state sintetizzate 1223 nuove
molecole. Solo undici riguardavano le malattie tropicali. In Africa due milioni
e mezzo di persone hanno un immediato bisogno di farmaci contro l’AIDS, ma solo
l’1% può accedere alle cure.
Nello stesso tempo
è noto come il consumo degli psicofarmaci è al primo posto in molti paesi
occidentali e il business delle multinazionali del farmaco è
stratosferico.
A
sostegno di questi interessi privati l’industria del farmaco ha costruito un
sistema che vede nel rilancio fortissimo della concezione biologistica della
malattia mentale e dell’approccio
comportamentista al disagio il suo cardine.
E’
noto che in psichiatria vengono finanziati quasi esclusivamente programmi di ricerca ad indirizzo
biologico e che anche le tecniche
cognitivo- comportamentali sono di supporto a questi studi: si vedano ad esempio
le ricerche sulle correlazioni tra i dati di brain- imaging e i deficit
cognitivi nelle psicosi schizofreniche, valutati con apposite
scale.
Sempre
più frequentemente queste ricerche sono finanziate dalle industrie
farmaceutiche, data la crescente scarsità di risorse pubbliche destinate allo
scopo. Si realizzano, così, nei fatti, una coincidenza ed una collusione tra
interessi legati al profitto e al mercato del farmaco e attività di ricercatori,
i quali per giustificare la loro esistenza e il senso del loro lavoro finiscono
per essere succubi delle scelte dei privati, a danno degli interessi della
salute della collettività.
E’
ragionevolmente consentito, in questa situazione, dubitare del valore
scientifico dei trial.
Anche
la classificazione delle malattie mentali periodicamente riveduta e corretta con
una aggiunta infinita di sottotipi risponde ad una logica di etichettamento, che
ha la pretesa di validità universale. Nata con l’intento di trovare un metodo
statistico- diagnostico su cui potesse convergere l’accordo della comunità
scientifica mondiale, è stata rapidamente utilizzata per le sperimentazioni
degli psicofarmaci sull’uomo. Ancora una volta, la sofferenza, depurata della
soggettività, ripulita dalle passioni, levigata dalle sue asperità, diventa
malattia e la persona frammentata nei sui sintomi, sezionata nelle sottodiagnosi
come un corpo morto su un tavolo autoptico, scompare, per far posto al potere
medico.
Ma
la classificazione ha soprattutto lo scopo di stabilire nuovi concetti di
norma e dunque di devianza. “ Il deviante è colui che si trova al di fuori
della norma ed è mantenuto all’interno o dell’ideologia medica o di quella
giudiziaria che riescono a contenerlo, spiegarlo e controllarlo…Non si tratta
di una risposta tecnica ad un problema di carattere specialistico, quanto
piuttosto di una strategia difensiva, tesa a mantenere lo status quo, a tutti
ili velli. La scienza, in questo caso, assolve al proprio compito, fornendo
codificazioni ed etichette che consentano la netta separazione dell’abnorme
dalla norma”(6).
I
sistemi diagnostici a valenza cosiddetta “universale”, ingessando la condizione
umana del disagio in stampi rigidi e precostituiti, ne impediscono la
comprensione profonda, ostacolano l’ascolto, rendono difficile il rapporto
empatico. Si è creato, così, un sistema neokraepeliniano alla base di una
rinnovata ideologia della distanza.
Le pratiche di liberazione contro il manicomio avevano messo in crisi il
postulato ippocratico della necessità della distanza tra curante e curato,
secondo cui non è possibile la diagnosi senza l’osservazione, non è possibile la
rilevazione dei sintomi se il medico non interpone una distacco tra sé e il
malato. Su questa base si è fondato il discorso medico ed il potere ad esso
legato.
Aver
abbattuto i muri del manicomio, aver slegato i matti, aver collegato, attraverso
il lavoro di deistituzionalizzazione, i meccanismi alla base della segregazione
manicomiale con quelli più generali dell’esclusione sociale non è stata un’opera
di semplice ammodernamento istituzionale,
ma l’espressione di una rottura epistemologica caratterizzata dalla messa
in crisi dell’asse portante di tutta la medicina moderna, nata con Ippocrate: la
distanza medico-paziente.
Il
rischio attuale è che gli interessi del mercato globalizzato rilancino con forza
l’idea che il sapere deve essere in mano solo ai tecnici, che avrebbero a
disposizione “le pillole e le fiale della felicità”.
Viene
incoraggiata, cioè, la convinzione che i sentimenti, le passioni, il mal di
vivere possano essere curati dagli specialisti, gli unici in grado di guarire la
malattia (intesa come devianza dalla norma), con sostanze
psicotrope.
Perfino
nella stampa di larga diffusione scientifica si ritrovano articoli riferiti a
studi più o meno credibili sulle “molecole dell’amore” o sullo sviluppo immaturo
di aree cerebrali che spiegherebbero gli atteggiamenti contestatari degli
adolescenti.
E’
impressionante come alla base di ogni ricerca o interpretazione sulla malattia
sia cancellata ogni dimensione sociale del disagio o della
sofferenza.
Anzi,
la realizzazione della normalità viene proposta in una sfera tutta individuale e
privata.
Per
difendere più o meno consapevolmente la mia normalità, le cui caratteristiche
sono dichiarate dagli altri, io utilizzo delle gabbie che non sono più solo
quelle delle istituzioni totali, ma quelle del vivere quotidiano: un’ideologia
rigida, una relazione di coppia, di famiglia, di gruppo, in cui l’Altro non
trova spazio, un sapere e un saper fare mai condiviso con gli altri. Il
confronto, lo scambio, i legami sociali diventano sempre più deboli e la mia
disperazione sempre più intensa.
Ecco,
allora, entrano in scena i tecnici psy, i quali con parole, ma soprattutto con
farmaci, cercano di lenire
La
rottura e la dissoluzione dei legami sociali sono attualmente al centro delle
analisi sul mal di vivere e sono
sempre più considerati come fattori favorenti il manifestarsi del disagio
e del disturbo psichico.
Questo
processo è visibilmente sostenuto dalla separazione della produzione
dall’insieme dei bisogni, dalla scissione del mondo della produzione da quello
della riproduzione sociale, dalla delocalizzazione dei processi produttivi: non
tanto espressione di un’epoca postindustriale, ma come massima e matura
espressione del modo di produzione capitalistico.
I
grandi poteri finanziari sono andati al posto di comando.
Il
denaro diventa il motore dell’astrazione, con un ruolo sganciato quasi del tutto
dal mondo della produzione (basti pensare che solo il 5% delle transazioni
finanziarie gli appartengono, il resto è pura speculazione di
borsa).
“L’astrazione
è depositata nel codice genetico della modernità: ed è la dissoluzione del
legame sociale” (Pietro Barcellona).
Risposte
tecniche che non affrontano il problema delle relazioni sociali, drammaticamente
povere in questo mondo globalizzato, nonostante le autostrade telematiche siano
piene di scambi informativi, sono destinate a fallire. Alle multinazionali, che
hanno a cuore il profitto, interessa poco. Anzi una cronificazione del paziente,
sempre più dipendente dai servizi e dai suoi terapeuti, prolunga a vita
l’assunzione del farmaco che diventa così, una vera droga.
E’
giunto il momento di chiedersi seriamente, come operatori dei servizi
psichiatrici, quali siano le cause della dipendenza dei pazienti. Ci
accorgeremmo, probabilmente, che
essa è prevalentemente legata alla scarsità di relazioni nel loro mondo, ad una
rete sociale povera, allo stigma che è cucito loro addosso come un vestito
stretto e soffocante. Almeno, nei servizi incontrano qualcuno e talvolta sono
anche compresi.
Allora
è obbligatorio chiedersi: cosa facciamo per rafforzare o costruire legami
sociali per gli utenti? O preferiamo vederli continuamente frequentare i nostri
servizi, nell’incapacità di rinunciare al nostro potere su di loro? Siamo
disposti a credere loro quando ci dicono che il farmaco ha sì eliminato le voci,
ma ora si sentono tristi, con la mente offuscata, senza desideri e senza voglia
di fare l’amore? E’ così strano, allora, che non vogliono più assumere
farmaci?
Ancora:
è mai possibile non accorgersi che la somministrazione dei neurolettici a lunga
durata è di una violenza inaudita, espressione dello strapotere del medico? Il
paziente non può controllare più nulla: il persecutore, prima esterno, è stato
introiettato. Per questo rifiuterà anche il long-acting.
Facciamo
davvero i conti, quando somministriamo i farmaci, con il rispetto dell’Altro? In
uno scarto immenso di potere tra noi e il malato, corriamo il rischio di
produrre danni incalcolabili quando non viviamo un rapporto di
reciprocità.
Non
vorremmo che alle docce fredde, alle sedie rotatorie, agli shock insulinici ed
elettrici e ad altri strumenti di tortura dei vecchi manicomi, utilizzati “per
il bene dei pazienti”, si sostituisca una pratica altrettanto repressiva,
ancorché sofisticata, di somministrazione acritica dei farmaci in dosaggi più o
meno elevati, sempre “per il bene dei pazienti”.
Oggi
il rischio è alto e concreto nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura con le
porte chiuse e dove la contenzione è una prassi di routine, in quelle strutture residenziali
isolate, prive di scambi con il mondo esterno, in quei centri diurni sempre più
“parcheggi di cronici”.
L’uso
inappropriato ed eccessivo di farmaci psicotropi è la norma in quelle case di
riposo per anziani, le quali, anche se non sono dei lager ( e molte lo sono),
assomigliano a spazi anonimi dove attendere la morte; in quei reparti di
geriatria, medicina e chirurgia, dove medici ed infermieri cinici non tollerano
i vecchietti che raccontano in maniera apparentemente insensata le favole della
propria vita, che cercano di esprimere con frasi sconnesse la loro rabbia di
essere soli e il desiderio di amare ancora ed essere
amati.
L’uso
sconsiderato di farmaci psicotropi sta venendo di nuovo alla ribalta nei casi di
bambini iperattivi. Ma cosa significa iperattivi? Sono troppo vivaci, non stanno
mai fermi a scuola, a casa? Ancora una volta vengono somministrati per farli
stare zitti e buoni. Nessuno si chiede il perché. Nessuno si chiede in quale
famiglia vivono e cosa si può fare per loro e le loro famiglie in difficoltà; se
hanno amici, cosa fanno con loro, che tipo di vita conducono fuori della scuola.
Nessuno si chiede se i contenuti delle lezioni scolastiche siano di loro
interesse o cosa si possa fare per suscitare la loro curiosità e polarizzare la
loro attenzione. E’ troppo difficile: richiede un impegno elevato da parte della
scuola, della famiglia, dei servizi. E’ più facile e sbrigativo dare il
Ritalin.
Pensiamo,
allora, che l’uso dei farmaci attivi sulla psiche sia giustificato solo in una
dimensione relazionale improntata al massimo rispetto, che accetti il rischio
della libertà dell’Altro, il rischio di ricevere un rifiuto. Sarà nostro compito
dare un senso al “no”, ponendoci mille perché, rinunciando alla scorciatoia
delle pratiche coercitive o truffaldine. Già questo atto servirà a ridurre lo
scarto di potere tra medico e paziente, a tutto vantaggio della qualità della
relazione.
E’
necessario, però, porre molta attenzione al “collettivo
curante”.
“E’
il collettivo curante nel suo insieme a regolare essenzialmente le variazioni
del consumo dei neurolettici. E questo consumo è un autentico barometro dell’ambiente
generale che in buona parte dipende dalla disponibilità materiale del personale,
dalla sua consistenza numerica e dalla sua disponibilità affettiva”(7).
La
qualità dell’organizzazione dei servizi incide, dunque, profondamente
sull’utilizzo degli psicofarmaci.
Il
nostro impegno di sempre è di costruire luoghi che siano catalizzatori di legami
sociali: dove è possibile connettere, scambiare, progettare, dove sia possibile
il riconoscimento dell'Altro e, dunque, l'ascolto e l'incontro scevro da
pregiudizi, in cui l’Altro sia visto come persona e non come malato, dentro la
sua condizione umana e non dentro la sua malattia.
In
tale contesto l’imperativo categorico di natura etica è informare gli utenti, le
loro famiglie sulla natura del farmaco, sugli effetti terapeutici, sugli effetti
collaterali, su quelli tossici a breve e a lungo termine.
In
questo senso dovrebbe essere valorizzata la normativa attuale sul consenso informato, che non va
utilizzata come il mero assenso all’uso di certe tecniche e presidi, ma come
reale informazione sulla tipologia dei trattamenti.
Un’altra
iniziativa importante da favorire è la realizzazione di gruppi di informazione e controinformazione sugli psicofarmaci,
formati da utenti, familiari ed operatori. A questo scopo anche la rete
telematica può essere di grande aiuto.
Notizie
su effetti tossici ,che le industrie farmaceutiche tendono a minimizzare, si
ritrovano in molti siti web di associazioni di psichiatrizzati.
E’
necessario creare una rete internazionale di tecnici e ricercatori indipendenti,
i quali possano divulgare notizie non condizionate dalle forti pressioni delle
case farmaceutiche.
Infine, gli
psichiatri, come del resto tutti i medici, per essere credibili, dovrebbero
rinunciare a tutti i grant, elargiti sotto ogni forma, dalle multinazionali del
farmaco.
Per
ognuno di noi, cercare di cambiare in meglio la realtà non è facoltativo, né una
missione caritatevole: fa parte del nostro lavoro, fatto di speranze e
delusioni, intriso di incontri, scontri, slanci affettivi e piattezze emotive,
vissuto sempre nel cuore delle contraddizioni. Con una certezza: nessuno si può
liberare da solo e ognuno ha bisogno degli altri.
Vogliamo
allora concludere con Bertolt Brecht, non più di moda, ma sempre attuale:
“Pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, non solo ad essere stati
buoni, ma a lasciare un mondo buono”.
Matera,
Napoli, maggio 2004
* Direttore DSM ASL n.4 - Matera
** Primario UOSM ASL 1- Napoli
[1] Foucault M., La casa della follia, in Basaglia F., Ongaro Basaglia F., (a cura di), Crimini di pace, Einaudi, Torino, 1975, p.168
[2] Foucault M., op. cit., pag.
168
[3] Foucault M., op. cit., pag.
156
[4] Bourdieu P., Controfuochi 2: per un movimento europeo, Manifestolibri, Roma 2001, pag. 65
[5] Ziegler Jean, La privatizzazione del mondo, Marco Tropea, Milano, 2003
[6] Basaglia F., Ongaro Basaglia F., La maggioranza deviante, Einaudi, Torino, 1971, pag. 20
[7] Mercier N., La Consommation des médicaments psychotropes
des quelques services hospitaliers, tesi, Paris,
1973