Questione giustizia
                    n. 2, 2005  p. 265 ss.

 

L’amministrazione di sostegno: la “flessibilità” della protezione delle persone non autonome. La procedura, la gestione, i rapporti con gli altri istituti.*

di Fabrizio Amato

 

1. I punti qualificanti della nuova disciplina / 2. La “flessibilità” della protezione come “segno” dell’intervento sulla disabilità / 3. Brevi cenni sulla procedura e sulla gestione dell’amministrazione / 4. La demarcazione tra amministrazione ed interdizione e inabilitazione / 5. Prospettive.

 

1. I punti qualificanti della nuova disciplina.

   Gli inconvenienti della disciplina in vigore fino al 19 marzo 2004, data di vigenza della legge n. 6/2004, imperniata sulle figure dell’interdizione e dell’inabilitazione, sono sempre stati giudicati molteplici: la costosità del processo; la difficoltà di difesa delll’interessato; la pesantezza delle conseguenze pratiche di ordine tecnico per l’interdetto, cui di fatto viene impedito di fare ogni cosa, e per l’inabilitato, che riceve un analogo o molto prossimo stigma di sostanziale incapacità. Si tratta di etichette odiose, misure “totalizzanti” (Chiarloni) ed a tempo indeterminato, spesso sproporzionate alle necessità di protezione del soggetto.

   L’istituto dell’amministrazione di sostegno nasce da oltre un decennio di riflessioni e studi multidisciplinari e da numerose proposte di legge presentate nelle passate legislature (Campese) e si pone tra gli obiettivi espliciti anche quello di superare questa rilevante contraddizione dell’ordinamento positivo e di realizzare un’operazione di rovesciamento culturale e valoriale in materia di capacità della persona e di tutela dei soggetti “svantaggiati”, deboli. La disciplina è stata pensata ed elaborata in un’ottica di promozionalità dei diritti di tali soggetti, non restringendo il campo d’intervento ai soli infermi di mente, anzi provando ad intervenire su una vasta gamma di disagi esistenziali di ordine più complesso, anche fisico.

   Molti ed articolati sono i punti cruciali e qualificanti nel nuovo istituto.

   a) Il primo attiene alla nuova direzione dell’intervento pubblico, che, come lascia intendere la finalità definita dall’art. 1, riguarda specificamente il sostegno nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana. L’attenzione del legislatore e degli operatori giuridici viene, quindi, spostata in prevalenza sui bisogni concreti di cura della persona, che questa non riesce a soddisfare da sé. La “cura” è assunta dall’ordinamento come “cifra” dell’intervento di tutela della persona priva o limitata nell’autonomia, come nuovo “diritto” dell’individuo in difficoltà. Cambia anche il linguaggio del legislatore: il nuovo art. 410 c.c. indica come dovere dell’amministratore di sostegno la considerazione dei “bisogni” e delle “aspirazioni” del soggetto beneficiario ed impone la necessità che i primi vengano effettivamente soddisfatti, anche in caso di contrasto tra amministratore e beneficiario; il nuovo art. 415 c.c. autorizza provvedimenti urgenti anche d’ufficio del giudice tutelare per la “cura della persona” (riproponendo, in assonanza con l’esperienza innovativa di tanti giudici tutelari, in questa parte la disposizione dell’art. 361 c.c.).

   b) Un secondo fondamentale aspetto caratterizzante l’istituto dell’amministrazione è rappresentato dal radicale ribaltamento di visuale rispetto agli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione: non si è in presenza di una generalizzata o cospicua riduzione di diritti, bensì si ragiona in termini di aiuto, di sostegno alla persona in difficoltà (Cendon). Questo comporta (secondo le chiare indicazioni degli artt. 405 e 409 c.c.) che il beneficiario conservi la capacità per tutti gli atti, non indicati nel decreto istitutivo del giudice tutelare, che non richiedano la rappresentanza esclusiva (“in nome e per conto”: art. 405, comma 5, n. 3) o l’assistenza necessaria (comma 5, n. 4) del soggetto chiamato a dare sostegno. Si attua in questo modo un regime di protezione della persona molto più attento ai reali bisogni ed alle necessità di essa, tale dunque da “comprimere al minimo i diritti e le possibilità di iniziativa della persona disabile”, offrendo, tuttavia, a causa della “ragionevole elasticità” della previsione legislativa, “gli strumenti di assistenza o di sostituzione” volta a volta necessari per colmare i momenti di crisi, di inerzia o di inettitudine del disabile (Cendon). Nell’attuazione della legge si dovrà, pertanto, favorire l’interpretazione in grado di accrescere o conservare la capacità d’agire (Calò).

   L’inabilitazione e l’interdizione, la riduzione del ricorso alle quali è esplicitamente auspicata dall’art. 1 l. 6 laddove esprime altresì la finalità di tutelare le persone in difficoltà “con la minore limitazione possibile della capacità di agire” mediante “interventi di sostegno temporaneo o permanente” sono, oltre che modalità spesso inadeguate di tutela generalizzanti, istituti rigidi e deputati al restringimento della libertà individuale. Compito di un sistema pubblico di welfare è certamente, al contrario, la rimozione per le persone variamente disabili degli ostacoli che, concretamente, ne impediscono lo sviluppo e l’esercizio dei diritti. Si prefigura così – anche per le modifiche intervenute in tema di interdizione ed inabilitazione – la graduale attenuazione (fino all’auspicata scomparsa) dello “statuto speciale” che da sempre ha accompagnato il disagio, le persone in difficoltà.

   c) Altro aspetto peculiare dell’istituto è la temporaneità della funzione da svolgere (art. 1 l. 6/2004; art. 405, comma 5, n. 2, c.c. in riferimento alla qualificazione del disagio stabilita dall’art. 404 anche come “parziale e temporanea” impossibilità di provvedere ai propri interessi). Il contenimento nel tempo del “sostegno” dell’amministratore (comunque prorogabile: art. 405, comma 6) appare particolarmente idoneo per i soggetti in difficoltà a causa di una menomazione fisica, eventualmente risolvibile o parzialmente regredibile.

   d) Il quarto aspetto qualificante l’intervento della disciplina del 2004 attiene alla valutabilità dell’amministrazione quale istituto principale di protezione delle persone non autonome. Rilevante risulta già la modifica della dizione del titolo XII del libro primo del codice civile, che l’art. 2 l. 6/2004 ha titolato alle “misure di protezione delle persone prive in tutto od in parte di autonomia”, nonché il posizionamento come capo iniziale del titolo della disciplina dell’amministrazione di sostegno. In secondo luogo, significativo è pure il disegno complessivo delle tre figure (amministrazione, interdizione, inabilitazione) come istituti chiaramente alternativi. L’art. 406, comma 2, c.c. prevede ora che, contestualmente al ricorso per l’amministrazione di sostegno, debba essere presentata istanza di revoca dell’interdizione o dell’inabilitazione, qualora beneficiario sia una persona già interdetta o inabilitata, escludendo, quindi, l’affiancabilità tra istituti. Appare perciò conseguenziale riconoscere all’istituto dell’amministrazione, costruito come l’istituto di protezione maggiormente adeguato ai bisogni di soggetti in tutto o in parte privi di autonomia (Pazé), la caratura migliore (in astratto ed in partenza) per la cura e l’assistenza della persona interessata, sebbene siano previsti precisi passaggi di procedura: ai sensi del nuovo ultimo comma dell’art. 418 c.c. il giudice (sulla questione se si tratti del giudice istruttore o del Collegio, v. infra § 4) che sta trattando un procedimento per interdizione o inabilitazione, anche d’ufficio, può (“appare opportuno”) trasmettere il procedimento al giudice tutelare, come pure (ex art. 413, comma 4) risultano possibili informative da parte del giudice tutelare al pubblico ministero, qualora ritenga promuovibile un giudizio d’interdizione o inabilitazione in caso di amministrazione rivelatasi “inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario”. Da tutto ciò appare conseguente ricavare la sostanziale prefigurata residualità e sussidiarità del ricorso, quanto meno, all’interdizione (Campese; Cedon; Calò; Bonilini).

   In tema non è secondario segnalare anche la modifica apportata, nella rubrica e nel testo dell’art. 414 c.c., dall’art. 4 l. 6/2004: la disciplina del codice riguarda ora persone che “possono” e non “debbono” essere interdette e viene chiarito che i soggetti in stato di abituale infermità di mente, incapaci di provvedere ai propri interessi, sono interdetti “quando ciò è necessario per assicurare la loro adeguata protezione”. Il legislatore non soltanto inserisce anche in questo caso un criterio di valutazione elastica e modulata delle necessità di protezione, ma implicitamente conferma che la metodologia di approccio alla protezione giuridica dei soggetti deboli deve partire (ed arrestarsi) dalle concrete esigenze e dall’adeguatezza dei rimedi.

   e) Di grande rilievo si mostra anche la scelta del giudice investito delle questioni concernenti l’amministrazione di sostegno. Contrariamente al preesistente (e confermato) affidamento della materia, attinente alle delicate questioni implicanti lo status della persona, dell’interdizione e dell’inabilitazione al Tribunale in composizione collegiale, il legislatore ha operato la scelta netta e carica di significati di affidare la competenza sull’amministrazione al giudice tutelare. Procedimento e gestione dell’amministrazione si svolgono davanti a questo “giudice di prossimità”; un giudice non soltanto diffuso sul territorio, ma la cui accessibilità è segnata da sostanziale informalità, procedura snella e semplificata, tendenziale gratuità e soprattutto aduso ai rapporti dialogici con i servizi e le istituzioni operanti sul territorio di sua competenza. Su tale scelta si esprimono perplessità (Nannucci) in merito al rischio di confusione tra ruolo del giudice tutelare e quello dei servizi territoriali, valorizzati dalla legge fino a ricomprenderli tra i soggetti che (ex art. 406 c.c.) possono proporre ricorso per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno. Altra preoccupazione viene palesata, trattandosi pur sempre di una forma di limitazione della capacità giuridica del soggetto beneficiario, riguardo alla sottrazione della competenza in materia al Collegio ed all’affidarsi ad una procedura di volontaria giurisdizione, tanto da far sospettare (Calò) possibili (a mio avviso, del tutto infondati) rilievi sul piano della legittimità costituzionale.

   Le obiezioni circa la congruità delle opzioni del legislatore appaiono in realtà ingenerose. Da un lato, rispetto all’esperienza maturata sul campo della qualità della “giurisdizione” offerta dal giudice tutelare, non può negarsi essere stato questo giudice non solo in grado di intercettare domande di giustizia per molti aspetti delicate ed importanti e di avere fornito risposte nella maggior parte dei casi attente a non confondere i ruoli e le competenze, ma soprattutto capace di trovare nelle pieghe dell’ordinamento, nelle aporie di esso (pensiamo ai rapporti “incrociati” con il Tribunale per i minorenni, all’esperienza in tema di vigilanza ex art. 337 c.c. o, appunto, a quella precorritrice in tema di amministrazione di sostegno) le risposte adeguate ai bisogni reali delle persone. Dall’altro, se, certo, la scelta del giudice monocratico rispetto a quello collegiale può astrattamente comportare minore ponderatezza di tutela in sede giudiziale e la procedura volontaria mostrare, per alcuni aspetti, minori garanzie di quella contenziosa, tuttavia, credo si situi proprio qui uno snodo fondamentale della intera questione: si passa, infatti, da una tutela delle “cose” (segno in gran parte distintivo dell’interdizione; scopo precipuo della inabilitazione) ad una tutela della “soggettività” personale e non si riduce tanto la capacità giuridica, quanto piuttosto viene, tramite uno statuto giuridico preciso e non estemporanee prese di contatto, prestata assistenza (anche solo temporanea) al soggetto in difficoltà  per la cura di interessi di vario tipo e la soddisfazione di bisogni non necessariamente economici. Se così è, la scelta della “semplificazione” appare pienamente coerente con gli altri punti qualificanti e permette di evidenziare la peculiare percezione complessiva della tematica da parte del legislatore, nonché tende a realizzare una sorta di “azione positiva” generalizzata verso la disabilità di ogni tipo per garantire un differente approccio al tema da parte di tutti gli operatori, in primo luogo giuridici.

   In effetti, la novella codicistica impone una rimeditazione culturale prima che giuridica e rappresenta ulteriore evoluzione del libro primo del codice del 1942, aderente ai mutamenti sociali ed ai principi costituzionali. Certo, questa lettura della disciplina introdotta dalla l. 6/2004 ribalta gli assetti finora consolidati della capacità giuridica e porrà una serie di problemi interpretativi concreti che nemmeno si è in grado di antivedere a “bocce ferme”. Per tale motivo si mostra fin da ora fondamentale l’opera interpretativa e latamente “creatrice” della giurisprudenza che verrà.

 

2. La “flessibilità” della protezione come “segno” dell’intervento sulla disabilità.

   La l. 6/2004 indiscutibilmente si situa nel solco delle discipline emancipatorie introdotte nei decenni passati in materia di disagi psicofisici e che hanno investito in varia misura ogni aspetto della disabilità: dall’antesignana legge Basaglia 180/78, alla legge-quadro 104/92 per l’assistenza, l’integrazione sociale ed i diritti dei portatori di handicaps, alla l. 68/99 che ha ridisegnato l’accesso al lavoro di disabili e categorie equiparate. Un complesso d’interventi caratterizzati da una nozione di protezione “morbida”, attraverso forme aperte, attente a valorizzare le (residue) capacità fisiche ed intellettuali del soggetto in uno sforzo d’integrazione continua nel tessuto sociale del disabile. Una logica d’intervento ispirata, dunque, al modello di soft law la cui peculiarità è rappresentata dall’integrazione virtuosa tra disposizioni primarie di riferimento ed il coinvolgimento operativo di diversi attori sociali ed istituzionali, nonché dello stesso soggetto destinatario di queste nuove ed inclusive forme di tutela non passivizzanti.

   L’amministrazione di sostegno fin dalla ricostruzione concettuale assume questo ruolo flessibile, o “mite” se si preferisce, giacché è implicito per la sua riuscita operativa che debba trattarsi di un “vestito su misura” volta a volta “tagliato” secondo esigenze e bisogni del beneficiario. Anche nella formulazione concreta della l. 6 si colgono i passaggi caratterizzanti di questa modalità post-moderna d’intendere l’intervento del diritto, della legge. In primo luogo, si è visto, risulta necessariamente flessibile la prima “costruzione” dell’amministrazione: cfr. i citati nn. 3 e 4 del comma 5 dell’art. 405 c.c. in combinato disposto con le previsioni dell’art. 409 relative alla conservazione della capacità di agire per gli atti che non richiedono rappresentanza o assistenza dell’amministratore (comma 1) e per gli atti comunque necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana (comma 2). Ma anche flessibilità in itinere, evidenziata, ad esempio, dalla continua possibilità per il giudice tutelare (su istanza dei soggetti abilitati al ricorso o d’ufficio) di modifica ed integrazione del “catalogo” degli atti inclusi o esclusi dall’amministrazione (art. 407, comma 4). Ed, inoltre, la necessità di interventi per la “cura” della persona, che non rimandano soltanto all’attenzione verso gli interessi economici o lo stato di salute del beneficiario, bensì presuppongono il continuo raccordo e spesso la codecisione tra amministratore e beneficiario. Significativa sul punto la disposizione che impone l’ascolto personale dell’amministrando da parte del giudice tutelare (art. 407, comma 2), qualificabile come “presupposto necessario” della pronuncia dell’autorità giudiziaria (Campese), cui si può derogare soltanto in caso di irreperibilità o rifiuto del beneficiario. Altrettanto eloquente in argomento la disposizione dell’art. 410, comma 2, in tema di dissenso da parte del beneficiario sulle scelte dell’amministratore, tenuto alla “tempestiva informazione” del beneficiario: circostanza che lascia intendere la costante apertura di un canale di interazione tra i due soggetti e l’adattabilità delle prescrizioni in relazione alla risoluzione da parte del giudice del conflitto, portato alla sua cognizione anche dallo stesso beneficiario ed anche in maniera informale (manca ogni indicazione procedurale nell’art. 410). Molto accresciutosi così il ruolo della volontà del disabile, appare davvero ragionevole ritenere oramai “al tramonto” l’incapacità assoluta (Calò).

   La flessibilità dell’istituto è presupposta e realizzata anche dalla disposizione (n. 6 dell’art. 405, comma 5) che, differentemente dalla sola previsione di rendiconto annuale per tutore e curatore, permette al giudice di fissare l’individuale periodicità di relazione da parte dell’amministratore e non soltanto sull’attività svolta, ma anche sulle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario. Tale relazione, modulata sulle esigenze concrete del singolo caso, viene ad aggiungersi al rendiconto annuale previsto dall’art. 380 c.c., richiamato dall’art. 411 c.c. tra le disposizioni applicabili anche al nuovo istituto, in quanto compatibili: nella specie, di tale compatibilità non è dato dubitare, chiarendo che, mentre il rendiconto ex art. 380 verterà esclusivamente sulle “risultanze dei conti” (secondo la formula adottata dal d.m. 12 marzo 2004 sulle regole di formazione e tenuta del registro delle amministrazioni), la relazione periodica di cui al citato n. 6 riguarderà in particolare gli aspetti non economico-patrimoniali dell’amministrazione in corso.

   La flessibilità è data, altresì, dall’agevole reversibilità dello strumento, nel senso della revocabilità assunta con decreto dal giudice tutelare (acquisite informazioni e disposti mezzi istruttori: art. 413, comma 3). Sotto questo profilo, va di nuovo richiamata la previsione del comma 4 dell’art. 413, che abilita anche d’ufficio il giudice tutelare a dichiarare cessata l’amministrazione quando i risultati conseguiti provino l’inidoneità dello strumento e delle misure adottate a realizzare la “piena tutela” del beneficiario. Anche questa disposizione, pur da intendersi fonte di una successiva maggiore limitazione di capacità per il soggetto, evidenzia la “filosofia” flessibile dell’intervento di protezione sul delicato piano della direzione, della gestione individualizzata della tutela e del riscontro concreto di essa: nell’amministrazione questa deve mirare a valorizzare le residue capacità volitive e fattive del beneficiario, mentre gli strumenti tradizionali, con la forte incapacità derivante per il soggetto, tendono prima e piuttosto a difendere e tutelare gli “altri”, la società o la famiglia. Qualora la prima non sia in grado di assicurare la tutela necessaria, nella determinata situazione, agevole sarà la riconversione della misura.

   Il principio di flessibilità dell’amministrazione di sostegno e di riconoscimento di una sfera di autonomia del beneficiario ha contaminato anche il regime di tutele e curatele. Infatti, al Tribunale, in composizione collegiale, è concessa , ai sensi dell’art. 427, comma 1, c.c. (introdotto dall’art. 9 l. 6), una particolare forma di flessibilizzazione degli strumenti tradizionali, allorché con la sentenza di pronuncia della perdita di capacità del soggetto si può evidenziare un’area “residua” di capacità, ossia stabilire che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’interdetto senza intervento o assistenza del tutore e taluni atti eccedenti l’ordinaria amministrazione possano essere compiuti dall’inabilitato senza l’assistenza del curatore. In altri termini, è ipotizzata una forma di “ammorbidimento” (Cendon) delle altre figure nella ricerca di interventi miti e flessibili per il soggetto disabile. La finalità è la salvezza del massimo di autonomia possibile della persona. L’interdetto in precedenza era privato del tutto di autonomia, di tutti i diritti, con la sola eccezione del diritto politico di voto attivo: la l. 6 gli attribuisce la capacità processuale di chiedere di essere sottoposto ad amministrazione di sostegno, nonché quella di agire senza l’intervento ovvero con l’assistenza del tutore per alcuni atti della quotidianità determinati dal giudice. Tale “addolcimento” di intervento, meno invasivo e rigido, si prospetta, come detto, anche per l’inabilitazione – il cui ricorso, sulla base della labile nozione dell’art. 415 c.c. (condizione “non talmente grave da far luogo all’interdizione”), la dottrina ha ritenuto, come per l’interdizione, restringibile all’infermità mentale al fine di evitare provvedimenti eccessivamente compressivi della volontà di autodeterminazione del soggetto -, nella quale, è noto, il giudizio si risolve, contrariamente all’interdizione ove emergono molti aspetti non patrimoniali, pressoché esclusivamente sull’esistenza del pregiudizio economico derivante dalla prodigalità o da altri fattori di rischio. L’allargamento degli spazi di capacità di interdetto o inabilitato, in armonia con le più recenti acquisizioni della scienza psichiatrica secondo cui per diverse forme di infermità di mente è prevedibile la reversibilità della patologia o la riduzione degli effetti mediante idonee cure, può avvenire anche nel corso della tutela o curatela, quando sia possibile attenuare il regime più severo, ai sensi del citato comma 1 dell’art. 427 c.c. che prevede la parziale “modulazione” del contenuto di interdizione ed inabilitazione realizzata con “successivi provvedimenti dell’autorità giudiziaria”. E gli stessi interdetto o inabilitato possono chiedere l’attenuazione di interdizione o inabilitazione, in analogia alla possibilità di richiesta dell’istituzione dell’amministrazione di sostegno con revoca della condizione di interdizione o inabilitazione (art. 406, commi 1 e 2).

   Dall’obiettivo negativo della privazione dei diritti, dunque, si passa alla positiva valorizzazione delle capacità residue dei disabili, cosicché, nell’applicazione di ognuno dei tre istituti di protezione, scopo fondamentale rimane “la minore limitazione possibile della capacità di agire” (art. 1 l. 6/2004), l’invasività di essi limitata alle reali necessità (Pazé) e correlata alla facoltà dell’amministrato di poter “in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana” (art. 409, comma 2, c.c.).

   In conclusione, deve segnalarsi, peraltro, che l’ampia nozione della disabilità utilizzata dall’art. 404 c.c., ovvero il concetto di infermità o menomazione fisica o psichica, anche parziale o temporanea, rende indispensabile ricondurre tutte le svariate fattispecie ad una logica di razionalità giustificatrice dell’intervento pubblico e di quello del giudice in particolare. In tal senso si coglie il connotato innovativo e flessibile dell’amministrazione sul peculiare terreno dei destinatari della protezione. L’interdizione e l’inabilitazione riguardano, come detto, soltanto gli infermi di mente e nessun altro “debole”. Il nuovo strumento è pensato, al contrario, per venire incontro a chi si trovi in difficoltà nell’esercizio dei propri diritti. Non soltanto i disturbati psichici: ma anche – secondo le indicazioni casistiche di Paolo Cendon - anziani della quarta età, handicappati sensoriali, alcolisti e tossicodipendenti che non siano nelle condizioni per l’inabilitazione, persone colpite da ictus cerebrale, malati terminali o, in casi particolari,  extracomunitari in specifiche condizioni di difficoltà, detenuti. Per queste ragioni nella prassi occorrerà delineare chiaramente la differenza tra incapacità fisica, impeditiva per certi atti o talune scelte esistenziali della piena comprensione e dell’oculata gestione di interessi e bisogni da parte del beneficiario, e forme d’incapacità, specialmente se parziale, che trovano idonea soluzione per il “sostegno” del soggetto nell’istituto della rappresentanza volontaria. Questo non vuol dire ricondurre l’indagine di nuovo sotto lo schema della sola infermità psichica, bensì presupporre l’effettiva congruità dell’utilizzo dell’istituto riguardo a situazioni da avviare a soluzione con il coinvolgimento delle strutture pubbliche. Il punto di vischiosità del sistema verosimilmente si situa ancora nella “zona grigia”, borderline, tra capacità ed incapacità, in cui spesso ad impedire la percezione compiuta dei propri interessi sono carenze di ordine affettivo-relazionale e disturbi di tipo fisico, e non tare psichiche, ovvero l’abbandono e l’incuria determinati da derive esistenziali precarie. La disciplina dell’amministrazione, infatti, riguarda in particolare ogni tipo di debolezza derivante da uno stato, anche temporaneo, di infermità e di cui possa essere consapevole lo stesso beneficiario.

   Un’area d’ipotizzabile lacuna d’intervento positivo attraverso l’amministrazione di sostegno viene identificata (Nannucci) nell’assenza di definitiva risoluzione delle difficili questioni attinenti ai trattamenti sanitari ed alle scelte consapevoli della adesione o sottrazione ad essi, ancorché necessari per la sopravvivenza o la migliore qualità della vita della persona interessata. Soprattutto in relazione a soggetti investiti da situazioni di fragilità personale, non soltanto di tipo mentale, e per i quali esorbitante si mostrerebbe l’interdizione. L’argomento merita distinta e complessa trattazione, in questa sede improponibile, e verosimilmente sarà un fronte su cui confrontare la “tenuta” delle garanzie individuali alla luce della nuova impostazione di politica del diritto fondativa dell’istituto in esame. Va, peraltro, segnalato che, se è ritenuta possibile l’attribuzione all’amministratore di sostegno del compito di sostituire la persona priva di autonomia nel compimento di un qualsiasi atto astrattamente demandato al tutore, deve ritenersi coerente anche attribuire all’amministratore (Pazé) l’espressione del consenso informato al compimento di atti medici o la scelta d’inserimento di persona non autonoma in istituti. La questione è certamente delicata. Tuttavia, la “residua” capacità della persona merita di essere valorizzata in qualche modo nelle scelte personalissime relative alla salute ed al luogo di collocazione domiciliare; pertanto, potrebbe risultare preferibile la nomina di un amministratore di sostegno, con il primario compito di informare il beneficiario sugli atti da compiere e di tenere conto dei suoi bisogni, aspirazioni e richieste.

 

3. Brevi cenni sulla procedura e sulla gestione dell’amministrazione.

   La procedura per la nomina di un amministratore si svolge per intero davanti al giudice tutelare (del luogo dove l’interessato ha residenza o domicilio), anche nella ipotesi (art. 405, comma 2) di promozione nell’ultimo anno prima del compimento della maggiore età di soggetto minore, affinché l’amministratore operi a decorrere dal diciottesimo anno, inizio dell’esecutività del decreto del giudice tutelare.

   Si tratta di una procedura di volontaria giurisdizione, anche se recepisce alcune regole della procedura contenziosa dell’interdizione (art. 720 bis c.p.c.). Si svolge, tuttavia, in modo sufficientemente informale e semplificato: nel suo corso il giudice può disporre anche di ufficio, ex art. 407, comma 3, gli accertamenti di natura medica e gli altri mezzi istruttori ritenuti utili. La disposizione stabilisce che il giudice tutelare provvede comunque sul ricorso in caso di mancata comparizione dei soggetti abilitati dall’art. 406 alla presentazione di esso, con prosecuzione dunque del procedimento anche esclusivamente su impulso d’ufficio: non è quindi configurabile l’estinzione di esso per inattività delle parti o rinuncia agli atti (Campese). Si può ritenere che l’audizione dei ricorrenti, in caso di impedimento serio, in analogia con quanto disposto al comma 2 per l’obbligatorio ascolto del beneficiario, possa venire assunta dal giudice tutelare nel luogo dove essi si trovino. Il dettato della disposizione esclude sia la delegabilità di questo incombente ad altri soggetti (i servizi territoriali sostanzialmente), in quanto l’audizione è attività ulteriore rispetto all’assunzione di informazioni, sia l’utilizzo di strumenti coercitivi (l’accompagnamento) di coloro che hanno presentato il ricorso ex art. 407 c.c., giacché gli elementi essenziali (“necessari”) per la decisione possono essere raccolti tramite le informazioni opportune e perché modalità coercitive si pongono in contrasto con la logica flessibile e “mite” di tutto l’intervento giudiziale.

   L’art. 406 individua la platea dei soggetti, legittimati a proporre azioni formali per promuovere l’amministrazione di sostegno, la cui individuazione deve ritenersi tassativa (Campese). Due sono i soggetti obbligati al ricorso, allorché siano a conoscenza di una situazione giustificatrice: il pubblico ministero e, novità assoluta di estremo rilievo, i servizi socio-sanitari. La legittimazione di soggetti pubblici esprime la volontà di ribadire il compito pubblico della protezione della persona priva in tutto o in parte di autonomia, provando anche ad ovviare alla diffusa inerzia del p.m. nella promozione di interdizione e inabilitazione (Pazé). Hanno facoltà di ricorso l’interessato medesimo (anche se minore, ma ultradiciassettenne, interdetto o inabilitato), il coniuge, i parenti entro il quarto grado e gli affini entro il secondo e la persona stabilmente convivente (art. 417 c.c., come riformulato dall’art. 5 l. 6/2004, richiamato dall’art. 406). Il giudice tutelare, al contrario, non è abilitato a procedere d’ufficio, mentre – si è visto - può d’ufficio provvedere alla dichiarazione di cessazione dell’amministrazione quando essa non appaia sufficiente alla “piena tutela” del beneficiario (art. 413, comma 4).

   Tra i soggetti che hanno la facoltà di presentare ricorso per l’amministrazione va rimarcata la rammentata indicazione dello stesso beneficiario (la cui legittimazione presuppone ed attua in sostanza la valorizzazione delle capacità residue del soggetto) e quella, adesiva ad un concetto evolutivo di famiglia che l’ordinamento sta poco alla volta realizzando, dei conviventi stabili del beneficiario: la genericità dell’espressione legislativa (Calò) permette di ricostruire il passaggio dall’antica e confermata valorizzazione della famiglia “allargata” ad una nozione post-moderna e nuova di famiglia, comprensiva delle diversità di orientamenti sessuali.

   L’art. 407, comma 1, individua i requisiti essenziali del ricorso, tra i quali appare di peculiare rilevanza, ai fini della realizzazione degli scopi dell’amministrazione, l’indicazione delle ragioni per cui si richiede la nomina dell’amministratore: questo permette fin dal primo momento di esplicitare i bisogni del beneficiario e di individuare i compiti di sostituzione e assistenza da attribuire. Le ragioni da indicare sono di ordine psicofisico, quelle concernenti gli specifici interventi (le attività per le quali occorre sostituzione o assistenza) e relative alle condizioni di reddito e di patrimonio del beneficiario ed alle concrete ulteriori necessità di cura dello stesso. Il ricorso proposto dai servizi territoriali, che avranno già iniziato a seguire la persona in stato di disagio, sarà verosimilmente accompagnato dalla relazione illustrativa delle condizioni del soggetto, dell’evoluzione della situazione, degli interventi svolti e/o programmati, delle modalità d’intervento ritenute necessarie. 

   Il procedimento deve esaurirsi in sessanta giorni ed è disciplinato dal nuovo art. 407 c.c. e dal citato art. 720 bis c.p.c. In applicazione dei principi del “giusto processo” ricorso e decreto di fissazione dell’udienza di comparizione vanno portati a conoscenza (a cura della cancelleria, trattandosi di procedimento di volontaria giurisdizione) della persona interessata, alla quale deve essere garantito il contraddittorio e la difesa, come agli altri soggetti “collegati” al beneficiario (coniuge, parenti, affini e convivente), nonché comunicati al p. m. (Pazé).

   L’audizione personale della persona cui il procedimento si riferisce è obbligatoria edil giudice ha altresì l’onere di recarsi, ove occorra, nel luogo in cui si trova (art. 407, comma 2). Anche in questo caso, appare contrario a dettato e spirito della legge provvedere tramite delega al giudice tutelare di questo luogo (diverso da quello di residenza e domicilio), di norma la dimora abituale, costituita ad esempio dalla casa di cura o dalla residenza assistita in cui l’interessato si trovi ricoverato.

   L’attività di assunzione delle informazioni (art. 407, comma 3) nel corso della procedura di nomina dell’amministrazione rappresenta un momento essenziale per l’affermato rovesciamento culturale portato dalla nuova legge.            L’istruttoria avrà il fine specifico di evidenziare le capacità (anche potenziali) del soggetto in modo da limitarle nel minore modo possibile (Pazé) ed anche il contenuto del quesito al c.t.u. va indirizzato all’indagine sul grado di autonomia residua, sugli atti per cui occorre provvedere alla sostituzione o all’assistenza e su quelli che il beneficiario può essere ritenuto capace di compiere da solo. Di conseguenza, il successivo decreto di nomina dell’amministratore deve contenere e disciplinare i punti essenziali indicati dall’art. 405, comma 5.

   a) L’indicazione dell’amministratore di sostegno, designabile dallo stesso beneficiario all’atto del ricorso o precedentemente in vista di una eventuale futura incapacità. In mancanza di designazione, alla scelta provvede il giudice tutelare, il quale - solo in presenza di “gravi motivi” (da individuare, ad esempio, nel decesso o nell’incapacità del designato, negli atti o nelle condotte pregiudizievoli o confliggenti con gli interessi del beneficiario: Campese) - può disattendere con provvedimento motivato l’indicazione. Il momento della nomina si pone come cruciale considerando che la scelta va fatta “con esclusivo riguardo alla cura e agli interessi della persona del beneficiario” (art. 408, comma 1). Tuttavia, riverberandosi la “flessibilità” dell’istituto sui diversi contenuti dell’amministrazione, anche la scelta dell’amministratore è connessa a tali specifici contenuti ed andrà privilegiata un’opzione di tipo affettivo-relazionale, in quanto l’individuazione dell’amministratore deve avvenire, ove possibile, riguardo al coniuge o alla persona stabilmente convivente che possono svolgere meglio le attività sostitutive di cura, ovvero ai parenti. Possono, peraltro, essere nominate altre persone idonee. Per individuarle è concesso il ricorso anche ad operatori del settore, pubblici o privati (servizi e associazioni di volontariato, con divieto di scegliere tra coloro che già abbiano in cura o in carico il beneficiario, al fine palese di evitare commistioni di ruoli o speculazioni), nonché al legale rappresentante o suo delegato delle persone giuridiche indicate nel titolo II del libro primo del codice (art. 408, comma 4). Scelta siffatta, però, si mostrerà coerente con le finalità della legge soltanto nei casi in cui l’attività sostitutiva sia in prevalenza di amministrazione di un patrimonio (Pazé).

   b) La durata dell’incarico dell’amministratore, a tempo determinato o indeterminato. Si é già valutata la peculiare novità della durata limitata nel tempo del sostegno, ancorché prorogabile in persistenza delle ragioni che hanno consigliato l’istituzione dell’amministrazione.

   c) L’oggetto dell’amministrazione: il momento più significativo del provvedimento, che dà l’indicazione degli atti che l’amministratore può o deve compiere in nome e per conto del beneficiario, degli atti che costui può compiere solo con l’assistenza dell’amministratore e dei limiti, anche periodici, delle spese che l’amministratore può sostenere con l’utilizzo del denaro del beneficiario.

   d) La periodicità flessibile, individuabile volta per volta, della relazione, anche orale, con cui l’amministratore dovrà riferire al giudice in merito all’attività svolta e riguardo alle condizioni di vita personale e sociale del beneficiario.

   Anche l’attività di gestione dell’amministrazione di sostegno si svolge davanti al giudice tutelare, come peraltro avviene per le procedure d’interdizione ed inabilitazione, la cui pronuncia è di competenza del Tribunale ordinario o del Tribunale per i minorenni, e sarà scadenzata dalle relazioni pervenute al giudice tutelare con la periodicità determinata nel decreto istitutivo dell’amministrazione. Peraltro, il giudice in ogni momento può convocare l’amministratore allo scopo di ottenere informazioni, chiarimenti e notizie sulla gestione dell’amministrazione di sostegno e fornire istruzioni inerenti agli interessi morali e materiali del beneficiario (art. 44, disp. att. c.c., modificato dall’art. 12 l. 6). Il beneficiario va quindi sentito ogni volta sia opportuno modificare od integrare il contenuto del decreto di nomina ai sensi dell’art. 407, comma 4, c.c. Il compimento di atti di straordinaria amministrazione, dotati di particolare potenzialità pregiudizievole per il patrimonio (artt. 375 e 376 c.c.), va autorizzato dal giudice tutelare e non, com’è disposto per interdetti e minori, dal tribunale (art. 411, comma 1).

   Per quanto riguarda la gestione corrente vanno segnalate, tra le altre, due questioni di un certo rilievo. La prima riguarda la tempestiva informativa dell’amministratore verso l’amministrato circa gli atti da compiere, prevista dal comma 2 dell’art. 410. Sebbene la disposizione non lo preveda, appare coerente con gli scopi di legge richiedere che almeno ad probationem l’informativa risulti da atto scritto dell’amministratore, in quanto è questa comunicazione scritta che consente al giudice ed agli altri interessati di valutare la genuinità del successivo atteggiamento del beneficiario. La seconda, di maggiore consistenza, è suscitata dalla previsione dell’art. 409 c.c. che dispone la conservazione da parte del beneficiario della “capacità di agire per tutti gli atti che non richiedono” l’intervento di sostituzione o assistenza dell’amministratore. Tra questi atti possono essere, tuttavia, ricompresi alcuni che al momento della nomina dell’amministratore nemmeno erano preventivabili o su cui il giudice abbia considerato necessario un accertamento successivo in base all’evoluzione delle condizioni complessive del soggetto. Prima del compimento di questi atti da parte del beneficiario, potrebbe rivelarsi utile una preventiva azione di tutela a garanzia del medesimo e dei suoi prossimi congiunti, attraverso l’adizione specifica del giudice, ad esempio da parte dei parenti più stretti che temano la circonvenzione della persona: la proposizione di questa sorta di opposizione, rectius d’intervento preventivo, va considerata ammissibile in virtù della prevista (art. 407, comma 4) facoltà del giudice tutelare di procedere d’ufficio a modifica ed integrazione del contenuto del decreto di nomina, che quindi implicitamente autorizza ad istanze per tali modifiche od integrazioni i soggetti pubblici e privati abilitati dall’art. 406 c.c. alla presentazione del ricorso.

 

4. La demarcazione tra amministrazione ed interdizione e inabilitazione.

   La linea di demarcazione fra amministrazione ed interdizione è, in primo luogo, originata dalle definizioni legislative. La nuova disciplina riguarda “le persone prive in tutto o in parte nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana” (artt. 1 e 2 l. 6/2004) ed, all’interno di questa definizione, si collocano lo stato d’infermità o di menomazione fisica o psichica che provoca l’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi (che conduce all’amministrazione di sostegno: art. 404 c.c.) e la condizione di abituale infermità di mente che rende il soggetto incapace di provvedere ai propri interessi, che può portare all’interdizione (art. 414 c.c.).

   Le aree di amministrazione ed interdizione sono, dunque, in parte sovrapponibili. Rientrano nell’amministrazione l’infermità o la menomazione fisica, nonché l’infermità o la menomazione psichica, che comporti tuttavia un’incapacità anche parziale o temporanea, mentre l’interdizione presuppone che il soggetto si trovi in stato d’infermità di mente (e non di corpo) abituale, ma non parziale o temporanea, e lascia scoperte le situazioni di transitoria incapacità (Calò).

   Per quanto attiene all’infermità o menomazione di ordine fisico totale (come quella dei soggetti totalmente paralizzati o che sopravvivono attraverso la respirazione assistita), l’istituto dell’amministrazione presuppone la permanenza di una residua capacità del soggetto (art. 409, commi 1 e 2), in questo caso almeno di ordine psichico, per il compimento (quanto meno di una parte) degli atti della vita quotidiana. Di converso si valuti come l’infermo di mente abituale, che non può provvedere ai propri interessi, possa essere – a secondo della dimensione spaziale e temporale della patologia – tutelato attraverso l’interdizione ovvero l’amministrazione.

   Si presenta, dunque, un problema di scelta tra istituti. Tale scelta, tuttavia, non deve avvenire soltanto secondo i livelli di incapacità della persona in difficoltà. Il richiamo ai principi ispiratori della legge, infatti, consente di rinvenire nel legislatore l’intenzione di calibrare in ogni caso gli interventi con il metro della concreta idoneità di essi rispetto al soggetto cui apprestare tutela, assumendo il profilo dell’integrazione sociale (Pazé). Il criterio di distinzione fondato sull’idoneità dello strumento poggia, in primo luogo, sul dato testuale dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno anche a situazioni molto gravi, quali gli stati di menomazione psichica assoluta. Ulteriore argomento, ritenuto ancora più risolutivo (Pazé), è tratto dalla citata disposizione secondo cui il giudice può dichiarare cessata l’amministrazione quando “si sia rivelata inidonea a realizzare la piena tutela del beneficiario” (art. 413, comma 4). E’ in sostanza anche quanto si deve dedurre dalla dizione del nuovo art. 414 c.c. secondo cui una persona “può” (non “deve”) essere interdetta e solo quando è necessario per la sua “adeguata protezione”. E’ corretto, pertanto, affermare il principio generale secondo cui la distinzione fra interdizione ed amministrazione va riferita non alla gravità dell’infermità mentale del soggetto, ma alla finalità da raggiungere, valutando quale dei due istituti si mostri maggiormente idoneo a rispondere ai bisogni del soggetto. Soltanto qualora si palesi necessaria la sostituzione tendenzialmente generale e permanente della persona priva di ogni autonomia, troverà applicazione l’interdizione, congrua per le situazioni disperate, di particolare gravità e di sicura irrecuperabilità. Se al contrario non occorre la compressione generale di tutte le facoltà lo strumento preferibile diviene l’amministrazione di sostegno.

   L’amministrazione, come segnalato in dottrina e nella prassi giurisprudenziale antecedente, va applicata se il soggetto va sostituito in determinati atti o vanno compiuti in sua vece atti o procedure burocratiche, mentre per tutta una serie di altri atti non si mostra necessaria sostituzione o assistenza, in quanto è la stessa disabilità ad escludere il pratico compimento di essi, cioè “funziona da autotutela” (Pazé). La casistica è molto ampia e viene suggerita dagli infiniti casi della vita, già passati al vaglio dei giudici: riscossione di pensione o assegni e prelievo dai risparmi per il pagamento della retta dell’ospizio dell’anziano privo di altri beni; presentazione delle domande per benefici assistenziali o previdenziali ed assicurativi; stipulazione di divisioni ereditarie o di vendite; accettazione di eredità; richiesta giudiziale degli alimenti ai parenti; ma anche ipotesi d’incapacità assoluta permanente nello stadio terminale della vita o d’incapacità assoluta ma temporanea (coma profondo dopo un incidente, con necessità di provvedere a pagamenti delle cure, riscossioni di stipendi); mancanze parziali di autonomia nei soggetti down. Tutti casi nei quali è evidente la necessaria limitazione d’invasività dell’intervento.

   Dunque, se effettivamente nella maggior parte dei casi di stato di infermità di mente non grave lo strumento di protezione più idoneo è diventato l’amministrazione di sostegno, questo sposta in posizione decisamente marginale anche il ricorso all’inabilitazione. Lo stato di inabilitato non impedisce che l’interessato disperda il suo denaro con tante spese voluttuarie rientranti nell’ordinaria amministrazione e l’esperienza rende edotti della scarsa utilità dello strumento, perché l'assistenza del curatore non realizza l’accompagnamento della persona e non assicura il compimento di atti che questa non voglia o possa effettuare, ed è vero che in fondo una persona in difficoltà si danneggia maggiormente nel caso di mancato esercizio di diritti o mancato adempimento di doveri (omesso pagamento di tasse, affitti, bollette, mancata riscossione della pensione), piuttosto che con il compimento di atti patrimoniali dannosi. La differenza con l’amministrazione, quindi, si apprezza proprio sulle ragioni strutturali della cura della persona e dei suoi interessi non patrimoniali, sostrato culturale (ed ora giuridico) dell’istituto introdotto dalla l. 6/2004. Se, dunque, l’inabilitazione è in concreto strumento di tutela in via principale del patrimonio del soggetto e soltanto di riflesso della persona cui esso appartiene, si apprezza la distanza abissale, il ribaltamento di prospettiva dell’amministrazione, tesa alla tutela soprattutto di momenti verosimilmente estranei, o solo indirettamente collegati, alla sfera della gestione economica del patrimonio del soggetto beneficiario ed espressione di un’opzione di politica del diritto speculare rispetto alla precedente.

   Riguardo ai rapporti tra istituti di protezione merita una segnalazione la previsione di due disposizioni che regolamentano i rapporti tra i procedimenti di interdizione ed inabilitazione, da un lato, e quello per l’istituzione dell’amministrazione di sostegno, dall’altro. L’art. 6 l. 6/2004 ha introdotto un ultimo comma all’art. 418 c.c., che già regolamentava i passaggi processuali tra le prime due originarie misure di protezione. L’attuale comma 3 dell’art. 418 specifica che, se nel corso del giudizio di interdizione o di inabilitazione si mostri opportuna l’applicazione dello strumento dell’amministrazione, “il giudice, d’ufficio o su istanza di parte, dispone la trasmissione del procedimento al giudice tutelare”, salva la possibilità di emanazione dei provvedimenti urgenti ai sensi dell’art. 405, comma 4. Appare innegabile che il “giudice” sia il giudice istruttore del tribunale ordinario adito nei procedimenti per interdizione o inabilitazione. Tuttavia, si pone il problema, in primo luogo, di quale debba intendersi l’autorità che trasmette il procedimento ed, inoltre, di quale sorte debba avere il procedimento instaurato presso il tribunale ordinario.

   Dal testo legislativo e dalla più volte richiamata finalità complessiva della legge sembra preferibile per la prima questione ritenere la competenza monocratica del giudice istruttore (contra Cosentini). Nella specie non si presenta una questione di competenza per materia, a seguito della confluenza in Tribunale delle Preture, ed il mero trasferimento del procedimento si fonda sul giudizio di idoneità della misura e della tutela sostanzialmente estraneo ad un diretto effetto sullo status della persona: di qui l’inopportunità della necessità assoluta di una pronuncia collegiale. Non è chiaramente delineato quale sia il provvedimento che dispone la “trasmissione”; si mostra accettabile l’interpretazione che lo individua nel decreto motivato (Cosentini, che però lo ritiene di competenza collegiale, integrato dalle disposizioni urgenti ex art. 405).

   Il punto effettivamente dirimente risiede nell’intervento urgente: infatti, qualora venga inciso anche lo status personale della persona attraverso detti provvedimenti provvisori, risulta conseguente ritenere l’emissione del decreto, ai sensi del combinato disposto degli artt. 405, comma 4, e 418, comma 3, c.c., di competenza, anziché del giudice istruttore, del Collegio. E’, altresì, ipotizzabile il caso in cui una delle parti del procedimento insista per la pronuncia di interdizione o inabilitazione, per cui necessariamente collegiale sarà la decisione: soltanto in questo caso viene ritenuta (Pazé) indispensabile la sentenza (di rigetto), con eventuale contestuale trasmissione del procedimento al giudice tutelare per la disamina della questione sulla nomina di un amministratore di sostegno.

   Questa duplice competenza organica del tribunale in diversa composizione non risulta contraddittoria, giacché è fondata sulla diversa “qualità” degli apprezzamenti della condizione della persona. In entrambe le ipotesi la traslatio judicii è strutturalmente integrale; essa presuppone un apprezzamento sulla “eccessività” delle altre misure di protezione rispetto alla condizione personale dell’interessato. Cosicché, in assenza di contestazioni, con lo stesso provvedimento di trasmissione si chiuderà la vicenda portata davanti al tribunale ordinario per le altre misure di riduzione della capacità.

   In questo modo si risponde al secondo quesito, relativo alla sorte del procedimento d’interdizione o d’inabilitazione. L’enunciata radicale soluzione si trova, d’altra parte, in speculare armonia con il disposto dell’art. 429, u.c., introdotto dall’art. 10 l. 6/2004. Questo nuovo comma 3 interviene in sede di procedimento di revoca e non di istituzione dell’interdizione o dell’inabilitazione ed impegna il giudice della revoca alla valutazione di “opportunità” dell’istituzione dell’amministratore di sostegno, stabilendo che in questo caso siano trasmessi al giudice tutelare “gli atti”. La differenza lessicale tra “procedimento” ed “atti” appare inoppugnabilmente decisiva e non certo frutto di atecnicismo o disattenzione del legislatore: non tutto il procedimento passa al giudice competente per l’amministrazione (come accade nel caso dell’art. 418), in quanto la traslazione del giudizio non può operare riguardo alla decisione sulla revoca, di esclusiva competenza del Collegio, anche se certamente implicita nella valutazione di opportunità di istituzione dell’amministrazione e non necessariamente contestuale al decreto di trasmissione. Tale decreto (anche qui si ritrova una distinzione lessicale cui fornire senso e razionalità) è, infatti, di competenza del “tribunale” e non del “giudice” come nella prima ipotesi (art. 418, u. c.) (contra Pazé): in tale caso è incontestabile la competenza collegiale alla trasmissione cui è preliminare la valutazione sulla convenienza dell’amministrazione. In questi casi, inoltre, è opportuno rilevare che la legge non dispone in merito all’emanazione di provvedimenti urgenti e provvisori e che nemmeno si pone tale esigenza, a causa dell’esistenza di altra misura protettiva a tutela della persona ed essendo lecito ritenere che, al fine di assicurare la protezione del beneficiario senza “scoperture”, l’amministrazione diverrà esecutiva ed efficace solo dopo la revoca della prima.

 

5. Prospettive.

   Alcune valutazioni sono già state espresse ed esse sostanziano le prospettive che si possono individuare in un percorso giurisprudenziale ed interpretativo soltanto all’inizio. Deve essere, peraltro, sottolineato che il concetto stesso di “protezione morbida”, che pervade l’intervento legislativo del 2004, sta ad indicare soprattutto una modalità di tutela aperta, per nulla pesante e burocratizzata, aderente ai compiti propri della sanità pubblica e coerente con lo sviluppo di pratiche sociali promosse dalle aree di confine con la psichiatria.

   Certo, il ruolo dell’amministratore di sostegno è tutto da costruire: la “scommessa”, se si vuole, dell’istituto è quella di riuscire a sostenere adeguatamente, anche per brevi periodi, gli individui che si vengono a trovare in difficoltà (per dare altri esempi, i cittadini anziani in particolari e difficili contesti di vita, le persone affette da disturbi neurologici affetti da temporanei deficit cognitivi, i politraumatizzati). E’, quindi, il tempo di passare dalla vecchia tutela, che si riduceva troppo spesso alla semplicistica quanto infruttuosa gestione della verghiana “robba” allo sviluppo di autentiche pratiche di diritti, ritagliate sugli effettivi bisogni della persona (Amato, Lupo).

 

Bibliografia essenziale

a) Antecedente alla vigenza della legge n. 6/2004

F. Amato, E. Lupo, L’amministratore di sostegno: strumento per una nuova qualità della vita, in questa Rivista 2000, 1083.

P. Cendon, Le origini dell’amministrazione di sostegno, in P. Cendon (a cura di), Persona e danno, vol. II, Giuffré, 2003, 1393.

G. Lisella, Amministratore di sostegno e funzioni del giudice tutelare, in www.pol-it.org/ital/lisella.htm.

b) Primi commenti alla legge n. 6/2004

AA.VV., Amministrazione di sostegno, Ipsoa, 2004.

G. Autorino Stanzione, V. Zambrano, Amministrazione di sostegno. Commento alla legge 9 gennaio 2004, n. 6, Ipsoa, 2004.

G. Bonilini, A. Chizzini, L’amministrazione di sostegno, Cedam, 2004.

E. Calò, Amministrazione di sostegno. Legge 9 gennaio 2004, n. 6, Giuffré, 2004.

G. Campese, L’istituzione dell’amministrazione di sostegno e le modifiche in materia di interdizione e inabilitazione, in Fam. Dir. 2004, n. 2, 126.

P. Cendon, Un nuovo diritto per i malati di mente (e non solo), in www.altalex.com.

S. Chiarloni, Prime riflessioni su alcuni aspetti della disciplina processuale dell’amministrazione di sostegno, in Giur. it. 2004, 2433.

L. Cosentini, Finalità e ratio della riforma normativa, Relazione al Convegno sulla Legge 9 gennaio 2004, n. 6, Milano 19 marzo 2004.

M. Dossetti, M. Moretti, C. Moretti, L’amministrazione di sostegno e la nuova disciplina dell’interdizione e dell’inabilitazione, Giuffré, 2004.

U. Nannucci, Amministratore di sostegno – pregi e difetti, in www.movimentoperlagiustizia.it.

P. Pazè, L’amministrazione di sostegno, in www.minoriefamiglia.it.

F. Tommaseo, L’amministrazione di sostegno: i profili processuali, in Studium juris 2004, 1061.



* Lo scritto è la sintesi ragionata della Relazione alla Giornata di studio, organizzata da Università degli Studi “Mediterranea” di Reggio Calabria e Ufficio per la formazione decentrata dei magistrati di Reggio Calabria su La legge 9 gennaio 2004 n. 6 sull’amministratore di sostegno, Reggio Calabria, 22 maggio 2004.