Poteri e leggi
psichiatriche in Italia (1968-1978)
Di Agostino Pirella
Nessuno dubita del fatto che a partire dalla metà del secolo scorso, si siano realizzate in molte parti del mondo industrializzato le condizioni per un mutamento profondo del paradigma psichiatrico costruito dall’Ottocento con la convergenza (ed il confronto) di poteri diversi. La lettura di testi sociologico-storici di Scull, Castel, Scheff, Doerner, e soprattutto di quelli “archeologici” di Michel Foucault danno ragione non solo del mutamento, ma del groviglio di interessi, aspirazioni, conflitti, che si sono manifestati dentro e contro la nuove istituzioni della nascente psichiatria (1).
Ciascuno
dei conflitti e delle relative proposte di “soluzione” si sono, di volta in
volta, presentati alla luce del sole o coperti da veli di segretezza, senza che
fosse possibile dare ragione delle diverse pressioni ed interessi in cui si
producevano. Mentre i nuovi tecnici (alienisti, freniatri, infine psichiatri)
giustificavano infatti le loro manovre
oppressive e distanzianti sui pazienti con alte motivazioni mediche e
curative, la convergenza dei poteri in gioco poteva dispiegare tutta la propria
efficacia progettuale.
Ciò
è accaduto soprattutto a carico delle condizioni di esercizio della nascente
psichiatria e della costruzione dei suoi monumenti, gli ospedali psichiatrici.
Non c’è dubbio che per la costruzione di un OP fossero necessari estenuanti
passi di avvicinamento agli interessi più diversi (Moraglio, 2001) e si
mettessero alla prova i poteri politici, amministrativi, commerciali, tecnici e
professionali, ciascuno ritagliandosi il proprio spazio ed il proprio guadagno.
E’
interessante citare, a questo proposito, la trista vicenda di un Cesare
Lombroso, chiamato nel 1873 nella commissione per l’erigendo manicomio di
Pavia, pronto a ricevere una “tangente” di mille lire per favorire due
architetti, i quali, non fidandosene troppo, mettono per scritto i loro
dubbi lasciandone traccia in un fondo
epistolare (2).
Ma
è sulle norme di esercizio e sulle leggi relative che si manifesta prima il
proposito di costruzione e poi la crisi del paradigma su cui si è storicamente
fondata la pratica psichiatrica e cioè il “potere psichiatrico”, che Michel
Foucault scelse come tema per le sue lezioni più tempestive al Collège de
France negli anni 1973-74.
Le
leggi psichiatriche
Intanto
si può osservare come la legge francese sull’ ”alienazione mentale” (così
infatti si denominava la “malattia mentale” prima ancora che la psichiatria si
affermasse come branca specialistica della medicina) ebbe una breve gestazione,
giungendo all’approvazione nel 1838 senza opposizioni e contrasti
significativi. Gli psichiatri (pardon alienisti) francesi erano compatti e,
dopo la morte di Pinel, fondatore della disciplina, si erano raccolti attorno
ad Esquirol, suo discepolo, realizzando la più esplicita e severa legge che uno
psichiatra repressivo potesse immaginare. Così, nel volgere di circa mezzo
secolo, la Francia, passava dalle “lettres de cachet” di emanazione sovrana
alle norme di restrizione della libertà e di trattamento di stampo medicale.
(3)
E’ stato osservato da Castel che, pur
mostrandosi con caratteristiche peculiari e come assoluta novità nel mondo nato
dalle rivoluzioni borghesi, il potere psichiatrico si collegava strettamente
con il modello carcerario. Di fatto Esquirol era un ascoltato membro della
commissione sul sistema carcerario e uno
psichiatra eminente, Moreau-Cristoph, era a capo del dispositivo giudiziario.
Del resto, la tendenza irresistibile di connotare come psichiatrico qualunque
gesto aggressivo è restata anche ai nostri giorni, sia sul piano del senso
comune che su quello psichiatrico pur con metodi e norme che fortunatamente si
mantengono distinti.
Diversa
sorte e un lungo iter ha invece avuto la legge manicomiale italiana, approvata
nel 1904 per la ferma volontà del primo ministro Giolitti, che intendeva
assolutamente risolverla, per molti motivi.
Anzitutto
per un contenzioso infinito sui costi dei manicomi che vedeva le
amministrazioni provinciali risolute a rivendicare libertà di scelta se
non avessero avuto voce in capitolo
nell’amministrazione e gestione degli istituti e timorose di trovarsi di fronte
a spese crescenti se non fossero stati ben identificati i soggetti da
ricoverare. Dall’altra parte si
esercitavano le pressioni degli psichiatri (pardon, freniatri) italiani che
reclamavano autonomia e pieno potere nella gestione degli istituti stessi.
Infine, l’opinione pubblica, che era turbata da avvenimenti luttuosi: ad
esempio, l’uccisione nel 1896 del presidente della Provincia di Roma, il quale,
in visita al manicomio provinciale venne aggredito da un paziente lavoratore
pare in seguito ad un rimprovero (o un’esortazione?) nei confronti dei
lavoratori stessi (Stok, 1982). Ma altre questioni sono raccolte nelle
cronache, come sospetti che familiari interessati confinassero i coeredi nei
manicomi, che il trattamento fosse inumano, ecc. (Stok, 1982) (4).
Il
rinforzo (o la ripulitura secondo Thomas Kuhn) del paradigma si sviluppa nel corso
di tutto l’Ottocento e nella prima metà del secolo successivo, realizzando
luoghi di forte controllo generale con qualche maglia allargata per quegli
internati che mostrassero di cooperare
attivamente con l’istituzione (Goffman, 1961) (5).
L’inserimento
dei nuovi tecnici nel contesto dei poteri pubblici, realizzato fortemente in
occasione del varo della legge del 1904, diviene ancora più diffuso e visibile con qualche
eccezione ( Arnaldo Pieraccini ad Arezzo, Guglielmo Lippi Francesconi a Lucca,
che fu ucciso dai nazifascisti nel 1943) (%) con l’avvento del fascismo, il
quale, ovviamente disinteressato ai diritti dei pazienti come a quelli dei
cittadini, favorisce, anche per mezzo di nuove norme (ad esempio l’iscrizione
dei ricoverati nel casellario giudiziario con il codice Rocco del 1931)
l’omologazione dei pazienti nell’area della criminalità. Tutto ciò ha influenza
sulla gestione degli istituti e della stessa psichiatria. Ritardi gravi
sull’introduzione della psicoanalisi e della psicoterapia, mantenimento di
metodi repressivi e “invenzione” di trattamenti di shock punteggiano il dominio
dei fascismi in Europa. L’elettroshock, “gloria italiana” (Cerletti e Bini,
1938) lo shock insulinico ed altri metodi (tra cui la demolizione di aree
cerebrali) che realizzavano un vero e proprio sistema del terrore, si estesero
al di là dei confini delle dittature trovando buona accoglienza anche nei Paesi
democratici (USA, Gran Bretagna, Scandinavia).
Tutto ciò rese possibile, sulla
base di un giudizio legale di non cittadinanza, realizzare, nell’ambito del
potere nazista, lo sterminio di circa 200.000 pazienti e l’”eutanasia dolce” di
altre decina di migliaia anche in Italia e Francia (6).
In
questo senso ciò che accadde in Occidente dopo la guerra può essere inserito in
una dialettica tra modernizzazione e democratizzazione della psichiatria.
Altrove ho scritto di una dialettica tra trasformazione e razionalizzazione
(7). Entrambi i corni della questione acquistano oggi un loro rilievo, mentre
l’utopia della democratizzazione sui temi della salute mentale e sulla pratica
concreta della psichiatria si è appannata ed è quasi svanita dall’orizzonte
delle cose possibili.
La “riforma” e le esperienze di trasformazione
E’
tuttavia un fatto importante e relativamente isolato che nel nostro Paese si
sia realizzata una riforma, rappresentata dalla legge 180 del 1978, confermata
dalla legge 833 dello stesso anno, la quale postula da una parte il superamento e la chiusura
degli OP e dall’altra la creazione di servizi territoriali adeguati per la
prevenzione, la cura e la riabilitazione in tema di salute mentale.
E’
mia convinzione che a ciò non si sarebbe giunti se non si fossero realizzate,
in alcune province, delle esperienze di trasformazione e appunto di “democratizzazione” capaci di
influire sui poteri decisionali e prima ancora di coinvolgere uomini e donne
nel loro progetto di socialità aperta, di reciprocità e di critica dei poteri
repressivi.
Nell’ambito
del presente intervento non sarà possibile soffermarsi su di esse, ma solo di
sottolineare quanto queste esperienze abbiano influito sui (e siano a loro
volta state influenzate dai) movimenti di emancipazione in varie aree e
condizioni. Le lotte anti-autoritarie degli studenti, quelle dei lavoratori,
delle donne nella loro specificità, hanno accompagnato le “critiche pratiche”
prodotte ed esibite nelle esperienze cui si è accennato. Talvolta si sono
realizzati collegamenti tra queste esperienze e tra esse e le lotte, con grande
scandalo dei benpensanti ma anche con passione conoscitiva e consapevolezza del
valore del mutamento. Ma queste trasformazioni, che si collegavano a radici di
innovazione professionale della psichiatria (l’approccio fenomenologico
esistenziale, la psicoterapia delle psicosi, la proposta della comunità
terapeutiche) erano anche una promessa
di cambiamento (e in fondo di miglioramento) delle condizioni di
esercizio della psichiatria, che così rifiutava le chiusure, le contenzioni
fisiche, l’uso indiscriminato degli psicofarmaci, e trovava che un posto non
psichiatrico era più “terapeutico” di una clinica, che la socialità informale
era l’unica accettabile, anzi che la “socialità psichiatrica” diventava
un’ “insocievole socievolezza”, come già
mostrò Kant a proposito degli antagonismi sociali, se regolata dal mercato e
dai poteri forti (8).
Così i fautori delle esperienze di trasformazione democratica della psichiatria sono riusciti (con o senza l’appoggio degli amministratori) contemporaneamente a forzare l’interpretazione delle vecchie norme e a trasformare la realtà delle istituzioni rompendo le barriere fisiche e culturali che rappresentavano il limite al cambiamento. Con ciò si differenziavano da tutti coloro che, pur consapevoli della necessità di modificare l’approccio al paziente, avevano tuttavia lasciato immutato il dispositivo di sistema dell’istituzione segregante e repressiva. Mutamento solo ideologico dunque e solo interpersonale, che non permetteva di uscire dalla enorme distanza di potere nella relazione medico paziente. Su questi aspetti Franco Basaglia si è espresso con molta chiarezza in diverse occasioni (9). Non poteva essere accettata la separazione troppo netta ed offensiva nei confronti della verità tra ciò che si scriveva e le pratiche manicomiali disumane che persistevano immutate.
Non
sappiamo se sia stata insensibilità, incapacità o che altro. Più facile
ritenere che si sia trattato, in questo clamoroso insuccesso delle ideologie a
cambiare le cose, dell’esigenza di non rompere con le alleanze di potere
vigenti, con i ceti proprietari, con la cultura “borghese”, in una parola con
l’establishment.
Nel
nostro Paese la legge di riforma, favorita dalle esperienze di trasformazione e
democratizzazione, è stata anticipata dalla legge 431 del 1968, e cioè giusto
dieci anni prima. Come si è visto per le leggi manicomiali, anche questa legge
(che è rimasta con il nome del ministro socialista alla sanità, Mariotti)
tendeva a rispondere ad esigenze solo parzialmente convergenti. C’era infatti
un esplicito richiamo del ministro all’esperienza in corso a Gorizia con Franco
Basaglia nei confronti con manicomi che il ministro definì “bolge dantesche”, e
d’altra parte le pressioni dei sindacati medici per l’equiparazione della
retribuzione con i medici degli ospedali generali e per l’istituzione di un
numero congruo di primariati. Era un’altra delle occasioni in cui si
coniugavano esigenze di modernizzazione con quelle di una pur modesta
democratizzazione.
La
legge 431 prevedeva standard quantitativi e qualitativi per gli operatori,
limitava la dimensione degli OP a non più di 500 posti letti, cancellava
l’iscrizione dei ricoverati nel casellario giudiziario, stabiliva per
l’ammissione volontaria – già prevista dalla vecchia legge manicomiale del 1904
– la cancellazione di tutti i vincoli delle norme precedenti. Dunque tutti i
pazienti che fossero entrati volontariamente in OP avrebbero potuto
(teoricamente) andarsene quando volevano. In realtà questo non fu realizzato in
tutti gli OP, in quanto il potere discrezionale dei medici sui pazienti si
manifestava anche in questa occasione. Si faceva intervenire un medico esterno
(in quanto al medico dell’OP era vietato firmare per l’internamento
manicomiale) per la “trasformazione” da volontario a coatto. Ciò comportava di
regola anche il trasferimento da un reparto “aperto”, a regime manicomiale
attenuato, ad un reparto chiuso con stile carcerario.
Nelle
esperienze della riforma il bilanciamento dei poteri, premessa indispensabile
ad un forte rapporto di fiducia tra curanti e curati, permetteva non solo il
mantenimento della condizione di volontario ma lo stesso graduale superamento
della condizione di ricoverato coatto.
Franco
Basaglia ebbe poi l’idea di inventare la condizione di “ospite”, e cioè del
ricoverato volontario che, dimesso dall’OP, restava, per sua scelta, in attesa
di una idonea sistemazione esterna, in una condizione “abitativa” impropria, in
reparti trasformati in comunità, in abitazioni ricavate da spazi
precedentemente occupati dal personale.
Con
questa sistemazione si sottolineava che la permanenza in OP era condizionata
dalle cattive condizioni economiche, familiari, lavorative e non dalla gravità
del quadro psichiatrico. Il numero crescente e non marginale di essi in
rapporto al numero decrescente dei “coatti”, ha rappresentato, permettendo un
confronto positivo con la popolazione, un fattore decisivo per il progredire
della riforma e del mutamento del giudizio pubblico sulla malattia mentale.
La
complessità degli eventi che si sono sviluppati negli anni ’60 e ’70 è ben
rappresentata dal succedersi di convegni di studio e di proposte di
aggiornamento che solo marginalmente influivano sullo stile di lavoro e sul
modello organizzativo della pratica psichiatrica, come si è visto con la legge
431 del 1968. In quegli anni, al contrario, proprio la concreta innovazione
rappresentata dalle esperienze avviate dal gruppo di Psichiatria
democratica (PD) era dimostrativa del
fatto che era possibile trasformare non solo la relazione tra la psichiatria ed
il paziente, ma la stessa condizione del paziente, anche senza una nuova legge organica, chiesta a gran voce da
molti psichiatri tradizionali, sicuri di mantenere sostanzialmente le cose come
stavano pur nel quadro di un aggiornamento di norme invecchiate. La richiesta
di una nuova legge si poneva dunque
paradossalmente sia come garanzia per il mantenimento dello status
quo sia come alibi per il non impegno quotidiano per la trasformazione.
All’interno
delle esperienze innovative, invece, era stato possibile perfino utilizzare
norme della vecchia legge e mancate indicazioni di essa per realizzare e
giustificare, anche di fronte al giudizio della magistratura, i mutamenti
proposti. Ad esempio, la legge manicomiale
affermava che erano vietate o applicate in casi assolutamente
eccezionali le contenzioni fisiche dei pazienti, affidando così la valutazione
dell’eccezionalità al direttore dell’OP. Ancora, una norma prescriveva che il
direttore doveva organizzare l’istituto secondo i “progressi della scienza
psichiatrica” (10). Infine, in nessun articolo era scritto che i reparti
dovessero essere chiusi o ad impronta carceraria (con gli spioncini alle porte
delle camere, con i chiavistelli, ecc. come divenne prassi consolidata).
E’
ben vero che nella legge era prevista la “custodia” oltre alla cura, ma anche
su questo i “progressi della scienza” potevano ben essere invocati per
trasformare il controllo a vista con un nuovo metodo “comunitario” in cui al
paziente, anzi alla intera collettività, veniva affidata una funzione implicita
di controllo reciproco e di reciproco aiuto in caso di difficoltà. L’interpretazione cosiddetta evolutiva delle
leggi ha rappresentato una risorsa fondamentale per il superamento di
concezioni della psichiatria come strumento di controllo e di repressione.
Dopo
la 180
Anche
dopo l’approvazione, nel 1978, delle norme previste dalle legge 180, poi
assorbite sostanzialmente nella 833, con qualche modificazione, di cui parleremo più avanti, gli psichiatri
tradizionali continuarono a chiedere ulteriori chiarimenti, leggi quadro
applicative, dimostrandosi incapaci di gestire il loro rapporto con i pazienti
in modo diverso rispetto il passato. In alcuni OP vi fu un’applicazione
paradossale delle nuove norme. Ad esempio, alcuni pazienti, giudicati
“guariti”, furono messi su pullman e trasferiti coattivamente nel comune di
provenienza (da cui mancavano da decenni) ed affidati al sindaco. (11) In molti
casi una provocatoria apertura delle porte dei reparti non modificò il
disinteresse nei confronti dei bisogni
di pazienti che venivano lasciati a vagare per i viali con vestiti
poveri e laceri. Nella generalità dei casi non vi furono modificazioni
sostanziali del carattere carcerario degli OP.
Nella
mia esperienza torinese, debbo dire che solo una parte dei medici fu capace di
mettersi a lavorare secondo lo spirito delle nuove norme, e che la
partecipazione organizzata di cooperative e di nonprofessional fu una
delle risorse importanti per la trasformazione ed il superamento delle
condizioni precedenti. L’appoggio degli amministratori fu decisivo, ed anche il
dialogo con i rappresentanti dei comuni e dei quartieri, oltre che del mondo
associativo in Collegno e Grugliasco e con la stessa popolazione. L’apertura
degli spazi del parco della Certosa di
Collegno fu anche uno dei fattori di svolta – come era accaduto nelle altre
esperienze – per il mutamento delle relazioni con i cittadini. Il campo
sportivo venne messo a disposizione di tutti, e furono concessi spazi per
concerti e manifestazioni pubbliche.
Sul
piano più generale la legge 180, con l’abolizione dei primi tre articoli
della vecchia legge manicomiale e il
divieto di ammettere nuovi pazienti negli OP, sanciva il superamento degli
stessi, anche se “graduale”.
Un
certo numero di psichiatri si trasferì presso gli ospedali generali a lavorare
con i pazienti che un tempo sarebbero stati accolti negli OP. Vi furono
difficoltà nel reperire spazi negli ospedali generali, che in qualche caso non
collaborarono. Ad esempio a Roma suscitò scandalo il fatto che solo tre
ospedali si resero disponibili per ospitare i nuovi “Servizi” (così si
dovrebbero chiamare e non “Reparti”) per complessivi 45 posti letto! Altrove,
ad esempio a Trieste e ad Arezzo, non vi furono grossi problemi, dato che
queste accoglienze erano già sperimentate in posti letto di medicina prima
ancora della approvazione della legge.
In
essa grande rilievo assumevano le norme che assicuravano una garanzia molto ben
definita dei diritti dei pazienti. Anzitutto il “Trattamento sanitario
obbligatorio” (TSO) doveva sottostare a tre condizioni, l’ultima delle quali fu
suggerita da Franco Basaglia. La prima: “se esistano alterazioni psichiche tali
da richiedere urgenti interventi terapeutici”; la seconda: “se gli stessi non
vengano accettati dall’infermo”; la terza: “se non vi siano le condizioni e le
circostanze che consentano di adottare
tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere” ( art.2, comma
2, legge 180/78; art.34, comma 4, legge 833/78). Con questa norma si voleva
basare la necessità dell’internamento a carico di una insufficiente
organizzazione territoriale e cioè, tanto più è efficace, presente, tempestivo
un intervento territoriale, tanto meno si porrà l’esigenza di ricorrere al
posto letto. Questo metodo, come si diceva già realizzato ad Arezzo e a Trieste,
aveva fatto abbassare il tasso di TSO a numeri molto bassi (5 per 100.000
abitanti) rendendo da una parte meno importante in risorse il servizio
ospedaliero a favore di quello territoriale e risparmiando al paziente
l’esperienza negativa del ricovero. (12)
Le
difficoltà di applicazione di questo modello (che come abbiamo visto per Roma
erano anche motivate da resistenze organizzative) fecero sì che da subito si
formarono associazioni di familiari duramente ostili alla riforma, mentre
altre, favorevoli, sottolineavano con durezza le inadempienze e le conseguenze
negativi di esse (13). Circolò uno slogan suggestivo e pericoloso: “Una legge
che ha grosse difficoltà di applicazione è una legge inapplicabile”. Anziché
rovesciare i termini della questione, e cioè: “una legge che è nata sulla base
di esperienze avanzate, positive e possibili deve essere applicata rendendosi
necessaria”, si preferiva rischiare il ritorno alla condizione manicomiale ed
alla riapertura del circuito repressivo. Di fatto ciò accadde in alcune regioni
del Sud ma anche nella progressista Liguria. In Piemonte si faticò moltissimo a
far passare le nuove norme mentre le case di cura e un OP privato, pur con una
graduale diminuzione dei posti letto, tentarono di continuare a ricevere pazienti,
in spregio alla legge.
Gradualmente
si organizzò un fronte compatto a favore sia della legge che del nuovo stile di
lavoro in psichiatria e del nuovo modello organizzativo basato sul servizio
territoriale forte e/o diffuso. Il grave ritardo governativo nel coordinare il
superamento degli OP e nello stimolare la creazione di adeguati ed efficaci
servizi territoriali fu poi recuperato sia dalle iniziative regionali che dagli
accordi a favore della legge tra PD e gli psichiatri della SIP (Società
italiana di psichiatria) (1991) (14).
Nel 1994 fu finalmente approvato dal governo un Progetto obiettivo
salute mentale, che dettava standard sui servizi territoriali. A questo
successo portò un contributo essenziale Franca Ongaro Basaglia nella sua
battaglia inesausta al Senato e PD con le sue esperienze, il suo fecondo
collegamento con i pazienti e con gli stessi familiari. Anche giornalisti,
amministratori, associazioni per i diritti degli utenti, enti locali, partiti e
sindacati si schierarono a favore di una legge che, scomparso Franco Basaglia
nell’agosto del 1980, era esposta a molti rischi (15).
Ma
proprio poco prima di lasciarci, lo stesso Basaglia aveva analizzato con
acutezza sia il valore che i limiti dell’apparato legislativo.
Afferma
Basaglia:” La novità della legge si incentra <…> soprattutto sulla
scomparsa del concetto giuridico di ‘pericolosità’ del malato mentale, da cui
si deduceva la necessità di custodirlo e quindi di violentarlo ed reprimerlo;
sull’opposizione - che da questa scomparsa deriva - alla creazione di nuove
strutture segreganti; sul capovolgimento dell’ottica tradizionale della
psichiatria che si trova per la prima volta in condizione di affrontare colui
che soffre di disturbi psichici, senza lo schermo della pericolosità e della
custodia”(16). Più avanti Basaglia introduce l’analisi e la verifica della
‘produzione’ dell’emarginazione e della devianza: ciò che è esistente lo è in
base ad una storia e ad una distribuzione dei poteri. E’ la condizione
materiale (non solo la miseria economica ma anche la miseria sociale che
impedisce di esprimere i nostri stessi bisogni e di rivendicare i relativi
diritti) che va identificata e trasformata. Per fare ciò è necessario attivare
una pratica trasformatrice che la nuova legge rende possibile.
E
così siamo di fronte sia ad un “vuoto” che ad un “momento felice”. Impropriamente – dice Basaglia –
definiamo il bisogno di una nuova
“scienza” e di una nuova “teoria” come
“vuoto ideologico”. In realtà è il “momento felice” in cui ci troviamo di fronte all’angoscia ed
alla sofferenza privi di strumenti che non siano un’esplicita difesa da esse.
Non so se Franco Basaglia abbia mai letto Georges Devereux. Ma è davvero
impressionante quanto questa dichiarazione risenta delle novità essenziali e rivoluzionarie
inserite da questo autore di etnopsicoanalisi nel suo “Dall’angoscia al metodo”
(17). Del resto abbiamo già detto quanto lo “spirito dl tempo” abbia, nella
seconda metà del secolo scorso, influito sulla crisi profonda del paradigma
psichiatrico (e in questo caso psicoanalitico e psicoterapeutico) dominante.
C’è
qualcosa che muta nel passaggio dalla 180 alla 833
Si
è detto che l’approvazione della legge 180 del 13 maggio 1978 ha rappresentato
l’anticipazione della più generale legge istitutiva del servizio sanitario
nazionale (23 dicembre 1978, n° 833). L’anticipazione fu motivata con la
scadenza del referendum abrogativo della legge manicomiale la cui approvazione
avrebbe lasciato un vuoto legislativo assai grave. Ma è interessante notare come
nei mesi che sono trascorsi dall’approvazione della legge 180 a quella della
833, e cioè dal maggio al dicembre, alcuni poteri si sono mossi per qualche
modifica non del tutto innocente. Ne daremo qui conto, con qualche commento.
Anzitutto
sul numero di posti letto nei servizi negli ospedali generali. Il numero
massimo di 15 è stato cancellato e si è affidato ad un “piano sanitario
regionale” il compito di fissare il numero dei posti letto. A cosa sarà dovuto
questo mutamento? Mentre il limite di 15 rispondeva alle esigenze di non
affollare eccessivamente un luogo che, come vedremo, avrebbe dovuto restare in
stretto collegamento con i servizi territoriali, l’esistenza in tutto il Paese
di reparti psichiatrici e neuropsichiatrici con un numero di posti ben
superiore avrebbe dovuto fare i conti con il divieto di superare i 15 posti e dunque ridimensionarsi. Si è in
questa occasione espresso un potere di condizionamento che ha gelosamente difeso gli spazi separati che
negli ultimi decenni si erano costituiti negli ospedali generali. Tali spazi
ospedalieri rispondevano più alle esigenze personali dei primari e della loro
clientela, spesso impropriamente ricoverata, che ai bisogni reali della salute
mentale della popolazione. In particolare proprio il modello organizzativo dei
servizi previsto dalla 180 entrava in conflitto con questa prassi
tendenzialmente privatistica. Infatti la legge prevedeva il modello
dipartimentale: “ i posti letto…al fine di garantire la continuità
dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale sono organicamente e
funzionalmente collegati, in forma dipartimentale, con gli altri servizi e
presidi psichiatrici esistenti sul territorio” (art. 6, comma 4, legge 180/78).
Oltre
alla cancellazione del limite massimo di 15 dei posti letto, la nuova
formulazione della legge 833/78 è molto meno incisiva: “…servizi psichiatrici
di diagnosi e cura all’interno delle strutture dipartimentali per la salute
mentale comprendenti anche i presidi e i servizi extra-ospedalieri, al fine di
garantire la continuità terapeutica”. E’ da sottolineare la dizione “continuità
terapeutica” in confronto alla più generale e comprensiva “continuità
dell’intervento sanitario a tutela della salute mentale” ed il riferimento ben
più incisivo alla “forma dipartimentale” cui i posti letto debbono essere
“organicamente e funzionalmente collegati”. E’ qui evidente lo scivolamento
verso la separatezza dei servizi ospedalieri e la trascuratezza dell’importanza
della forma dipartimentale che richiama evidentemente gli elementi contenuti
nel DM 8 novembre 1976 sugli “Orientamenti per l’attivazione delle strutture
dipartimentali ecc.” che punta su metodi di lavoro collegiali, un comitato di
dipartimento con un coordinatore eletto a turno, metodi ben lontani dalla
intensa gerarchizzazione che si è imposta successivamente nelle regioni in cui
il dipartimento di salute mentale si è costituito sull’esempio del paradigma
manicomiale, autoritario e burocratico.
Un
ultimo elemento di variazione tra le due leggi va rilevato e si riferisce al
richiamo al dettato costituzionale. Appare evidente che il legislatore, nel
momento in cui riconsegna al “malato
mentale” o “infermo” un pieno diritto di cittadinanza, voglia rendere esplicito
che tutte le norme costituzionali sui diritti valgano anche per questo soggetto
che esce dai vincoli della legge manicomiale. Ed infatti ecco il richiamo,
nella 180 (art. 1, comma 2), ai “diritti civili e politici garantiti dalla
costituzione”, mentre la legge 833 trova opportuno limitare il riferimento alla
costituzione al solo art. 32, che viene espressamente citato assieme al
“rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici, compreso
per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di
cura”. (18)
Bisogna tuttavia ricordare che una variazione
significativa, sostanzialmente migliorativa, è stata inserita nella 833 e
consiste nell’aggiunta di un comma che prevede un’azione esplicita dell’USL per
ridurre l’uso dei TSO. Non so quante USL abbiano effettivamente iniziato e
sviluppato le iniziative previste da questo importante comma: “L’USL opera per
ridurre il ricorso ai suddetti TSO, sviluppando le iniziative di prevenzione e
di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità” (legge
833, art. 33, comma 5).
Resta il fatto però che, al di là del dettato
legislativo della 833 - che resta comunque decisamente garantista - nella
pratica invalsa tutti i diritti costituzionali sono stati ignorati o soppressi
in modo disinvolto e brutale. Il diritto a non subire violenze (art. 13 cost.:
“E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizioni di libertà”) il “diritto dell’infermo di comunicare con chi ritenga
opportuno” (legge 833, art. 33, comma 6) (19).
Si
è dunque riorganizzato un potere che era andato in crisi sotto il duplice
attacco della riforma e della nuove pratiche di una psichiatria democratica e
partecipata. Una nuova generazione di magistrati ha ripreso vecchi stereotipi
sulla malattia mentale, confortata da giovani psichiatri baldanzosi e cinici. I
pazienti hanno letteralmente paura di parlare, di criticare, di muovere
osservazioni, perché il loro destino può essere deciso in base al comportamento
più o meno “rispettoso”. La contenzione fisica (legare al letto per lungo
tempo) viene interpretata come “misura sanitaria” o comunque “terapeutica”. Il
potere psichiatrico ha ripreso la scena e non intende lasciarla, anzi si avvia
verso sempre più vaste imprese diagnostiche e terapeutiche, dai “borderline”,
ai “disturbi di personalità”, ai bambini
disattenti e iperattivi, ai “perduti al mondo” come li chiama Castel, ai
“nuovi pericolosi” (20).
Di
nuovo alla psichiatria i poteri politici ed amministrativi delegano, con scarsa sensibilità della larga opinione
pubblica, l’esercizio di potere sui soggetti che risultano non utili al
mercato, sia perché fragili, incapaci, sia perché variamente inadatti e non
collocabili, e variamente etichettati. Oggi vanno molto di moda i “disturbi di
personalità”, che, guarda caso, colpiscono le larghe fasce di poveri e di
marginali, di violentati e di oppressi in vari modi ed da varie circostanze. Ma
questo collegamento con i modi e le circostanze, con la violenza sociale non
viene rilevata come importante dalla nuova psichiatria che si appoggia alle
neuroscienze ed alla farmacologia
simulando una scientificità forzata, inefficace e spesso nociva.
Simmetricamente il potere psichiatrico torna ad occuparsi dei criminali, anche
e forse soprattutto di quelli danarosi, per sottrarli ad una giusta pena e per
diagnosticarli sotto le vetrine televisive.
Ma,
sostanzialmente, si tratta di un processo che unisce i poteri in gioco sul
destino di molti che risultano totalmente inascoltati, fuori da ogni
opportunità, soggetti a cui è sottratto ogni potere sulla propria vita. Si
tratti di migranti, di gente in rivolta, di persone chiuse nel proprio mondo,
di altri che, al contrario, appaiono reattivi e - come dicono le nosografie
psichiatriche - “irrispettosi” la psichiatria tiene il campo con ostinazione degna
di miglior causa e mantiene ancora, perfino in Italia, lo stile di lavoro che
l’Ottocento ci ha tramandato.
Note
(1)
I riferimenti ai lavori che hanno aperto le strada a riferimenti sulla “crisi”
della psichiatria istituzionale e ai
suoi sbocchi sono numerosi ed hanno segnato la seconda metà del secolo scorso.
Mi sono limitato a richiamare gli autori che più autorevolmente hanno
dimostrato, sul piano degli studi
storico-sociali come su quello delle pratiche di trasformazione, questo
percorso. Vedi: R. Castel, L’ordre psychiatrique, Les
Editions de Minuit, Paris 1976, trad. it. L’ordine psichiatrico, Feltrinelli, Milano
1980 ; K. Doerner, Buerger und Irre, Europaeische Verlagsanstalt,
Frankfurt 1969, trad. it. Il borghese e il folle, Laterza, Roma-Bari 1975; M. Foucault, Histoire de la folie à l’age
classique, Librairie Plon, Paris 1961, trad. it. Storia della follia,
Rizzoli, Milano 1963; recentemente Le pouvoir psychiatrique, Cours au
Collège de France 1973-1974, Seuil/Gallimard, Paris 2003 ; T. Scheff, Being
Mentally Ill. A Sociological Theory, Aldine Publishing Company, Chicago 1966, trad.it. Per infermità
mentale, una teoria sociale della follia, Feltrinelli, Milano 1974; A.
Scull, Decarceration, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (NJ) 1977; A. Scull,
Museums of Madness, Allen Lane, Penguin Books Ltd, London 1979; A.
Scull, The Most Solitary of Affliction, Madness and Society in Britain
1700-1900, Yale University Press, New Haven and London 1993. Di F. Basaglia, Che cos’è la psichiatria?, 1°
ed. a cura dell’Amministrazione provinciale di Parma, 1967, poi Torino,
Einaudi, 1973, infine Baldini & Castoldi, Milano 1997; L’istituzione
negata, Torino, Einaudi 1968, poi
Baldini & Castoldi, 1998.
(2)
Risulta da una ricerca di Stefania Sartori che Lombroso, membro di una
commissione per un progetto di costruzione del nuovo manicomio di Pavia abbia
concordato la vittoria del progetto dei due architetti Vincenzo Monti e Angelo
Savoldi, ricevendone una parte del premio (mille lire sulle cinquemila del premio).
Il Savoldi, scrivendo al Monti, manifesta le sue preoccupazioni: (Lombroso)
“sarà un fior di galantuomo, io questo non lo metto in dubbio, ma chi mi
garantisce che il medesimo contratto che sta facendo con noi non lo voglia fare
anche con un altro; così quando il lavoro di entrambi è a buon punto, darsi a
quello che lui trova migliore, lasciandoci, se il suo capriccio lo vuole,
scornati d’avergli mostrato l’opera nostra, d’avergli dato in mano un’arma per
abbatterci più bene, perché lui conoscerebbe il nostro progetto e saprebbe
meglio discuterne i nostri difetti”. (Stefania Sartori, “La costruzione del
manicomio di Pavia in Voghera”, tesi di laurea in psicologia, AA 2001-2002. La
lettera in: Fondo Savoldi, presso la Biblioteca civica Bonetta di Pavia)
Di
M. Moraglio vedi: Costruire il manicomio, Storia dell’ospedale psichiatrico
di Grugliasco, Edizioni Unicopli, Milano 2002
(3) R. Castel, L’ordre psychiatrique, cit.,
trad. it. L’ordine psichiatrico, Feltrinelli, Milano 1980 ; sulle
«Lettres de cachet» (ordini di emanazione reale per l’internamento di persone
indesiderate) vedi: A. Farge, Le Désordre des familles, Lettres de cachet
des Archives de la Bastille, Paris, Gallimard, Julliard, coll. Archives, 1982 (con M. Foucault)
(4)
F. Stok, La formazione della psichiatria, Il pensiero scientifico
ed. Sul “caso Berardi” (dal nome del
presidente della provincia di Roma vedi pag. 102. “… il direttore di
quell’asilo, ed altri medici, erano stati incriminati per omicidio colposo. Il
processo, pur risolvendosi con l’assoluzione, lasciava una viva preoccupazione
negli alienisti ed induceva la Società Freniatrica a lanciare una
campagna volta a dimostrare che la responsabilità di incidenti di questo tipo,
se sussisteva, riguardava non i medici ma le amministrazioni, responsabili di
continue intromissioni nella vita dei manicomi. Il caso di Roma si prestava
bene ad una gestione di questo tipo: il Berardi, assiduo frequentatore del
manicomio, era stato ucciso mentre redarguiva gli alienati per la scarsa lena
con cui si dedicavano al lavoro”.
(5) T. Kuhn, The Structure of Scientific
Revolutions, University of Chicago Press, Chicago 1962, trad. it. La struttura delle
rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969; E. Goffman, Asylums, Anchor Books, 1961,
trad. it. Asylums, Einaudi, Torino 1968
(6)
Su Pieraccini e soprattutto su Lippi Francesconi vedi la larga documentazione
di Paolo Tranchina in: Psichiatria e nazismo, Atti del Convegno, San
Servolo, 9 ottobre 1998, a cura di Diego Fontanari e Lorenzo Toresini, Fogli
di Informazione, n° 191, 2001, ed. Centro di doc. di Pistoia.
Sui trattamenti di shock e sugli interventi si
psicochirurgia vedi: E. Valenstein, Cure disperate, Giunti, Firenze,
1993; sullo sterminio dei malati di mente e dei disabili ad opera dei nazisti,
oltre al volume citato sopra, E. Klee, Dokumente zur “Euthanasie”,
Fischer Taschenbuch Verlag GmbH, Frankfurt am Main, 1985; E. Klee,
(Herausgegeben, a cura di) “Euthanasie” im NS-Staat, Die “Vernichtung
lebensunwerten Lebens”, Fischer Taschenbuch Verlag, GmbH, Frankfurt am Main
1991; K. Doerner, C. Haerlin, V. Rau, R.
Schernus,A. Schwendy, Der Krieg gegen die psychisch Kranken, Sonderband
der Sozialpsychiatrischen Informationen, Mabuse Verlag, Frankfurt, Psichiatrie
Verlag, Bonn 1989; M. Lafont, L’extermination douce, La mort de 40000
malades mentaux dans les Hôpitaux psychiatriques en France, sous le régime de
Vichy, Editions de l’AREFPPI 1987
(7) A. Pirella, “Institutional Psychiatry
between Transformation and Rationalization: the Case of Italy”, International
Journal of Mental Health, vol. 16, n° 1-2, M.E. Sharp Inc., 1987;
pubblicato anche in Revista de l’Association Española de Neuropsiquiatria,
vol. VII, n°
20, 1987. Ora in A. Pirella, Il problema psichiatrico, Centro di doc.
Pistoia 1999
(8)
I. Kant, Idee zu einer allgemeinen Geschichte in Weltbuergerlicher Absicht,
1784; in italiano, Idea per una storia universale dal punto di vista
cosmopolitico in: N. Merker (a cura di ) Kant, Lo Stato di diritto,
Editori Riuniti, Roma 1975. Vedi anche: “L’insocievole socialità” in A.
Pirella, Il problema psichiatrico, cit.
(9)
A cominciare dal suo primo testo, Che cos’è la psichiatria?. ,
Amministrazione provinciale di Parma, 1967, poi Einaudi, Torino 1973, ed infine
Baldini & Castoldi, Milano 1997.
Vedi lo sviluppo delle sue posizioni contro le ideologie separate in Franco
Basaglia, di M. Colucci e P. Di Vittorio, Bruno Mondadori, Milano 2001
(10)
Regolamento del 1909 alla legge 14 feb. 1904, n° 36. Questo stesso regolamento
prevedeva anche la corresponsione di denaro ai dimessi per il loro migliore
inserimento sociale.
(11)
L’episodio del pullman è citato da Sergio Scarpa nel suo intervento alla Tavola
rotonda “La legge 180 come strumento di lotta e di cambiamento sociale”, al
Convegno regionale di Psichiatria democratica, Venezia 23-24 ottobre 1981, in :
Fogli di Informazione, n° 80, 1982, pag. 51. L’intervento di Scarpa è
importante anche per le notizie e le valutazioni sui rapporti tra i partiti e soprattutto il PCI e il movimento
di PD. Su questo vedi anche: A. Slavich, La scopa meravigliante, Preparativi
per la legge 180 a Ferrara e dintorni 1971-1978, Editori riuniti, 2003
(12)
“In caso di ricovero ospedaliero, infatti, la discriminante circa la qualità
dell’intervento non risulta più il ‘malato’ in base alla gravità e alla
pericolosità della sua ‘malattia’, ma l’organizzazione sociale in base alla sua
capacità o meno di rispondere ai bisogni e ai diritti del cittadino, nella
salute e nella malattia”. (F. Basaglia, Prefazione a Il giardino dei gelsi,
a cura di E. Venturini, Einaudi, Torino 1979; ora in F. Basaglia, Scritti,
vol.II, pag. 468). Sui TSO vedi: L Mosher, L. Burti, Community
Mental Health, Principles and Practice,W.W. Norton, New York, 1989, trad.
it. Psichiatria
di comunità,
Feltrinelli, Milano, 1991, ora anche Il Pensiero Scientifico editore, Roma
1999, dove si possono apprezzare confronti tra pratiche USA e italiane. Vedi
anche: G. Marchi, “Ricoveri in SPDC e servizio territoriale. Indagine
epidemiologica”, Fogli di Informazione, n° 127-133, 1987, pag. 1-12
(13)
Queste posizioni si confrontarono più volte in dibattiti pubblici piuttosto che
con testi e documenti. Negli anni ’80 numerose furono le occasioni di
interventi pubblici in convegni che talvolta erano poi trasmessi in Tv. Vedi ad
esempio “Il fantasma del manicomio” a cura della redazione di “Cronaca” della
rete 2 della Tv nazionale, 1982, che riprende video girati all’OP di Arezzo
negli anni ’70 e presenta al dibattito tra gruppi, contrapposti in modo acceso,
dichiarazioni di utenti dei servizi che elogiano la riforma. Vedi anche la già
citata tavola rotonda nel n° 80, 1982, dei Fogli di Informazione
(14)
Vedi: “Comunicato di Psichiatria Democratica e della Società Italiana di
Psichiatria sulla riforma psichiatrica”, Fogli di Informazione, n° 158,
1993, pag. 18-20
(15)
Le vicende difficili e contraddittorie della legge e della sua applicazione
sono state documentate con tempestività ed accuratezza dalla rivista Fogli
di Informazione, organo informale di Psichiatria democratica, edita dal
Centro di documentazione di Pistoia, casella postale 347 Pistoia, e-mail: tranteo@cosmos.it; giorlima@tin.it. Vedi n° 155, 1992, con il contributo di V.
Pastore, “La legge 180: un quadro generale”, pag. 52-63; n° 179, 1999 che
contiene, tra l’altro, la “Sintesi della relazione sullo stato di attuazione
del processo di superamento degli ospedali psichiatrici” a cura del Ministero
della Sanità, pag. 1-14; n° 197, 2003, “Psichiatria Democratica trent’anni” con
numerosi contributi e con un’ampia bibliografia con oltre 150 parole chiave, a
cura di Paolo Tranchina e Maria Pia Teodori.
(16)
Vedi: Prefazione a Il giardino dei gelsi
a cura di E. Venturini, Einaudi, Torino 1979, in: F. Basaglia, Scritti, vol. II,
Einaudi, Torino 1982, pag. 468
(17) G. Devereux, De l’angoisse à la methode
dans les sciences du comportement, Aubier/Flammarion, Paris 1980 (trad. Dall’inglese di From
Anxiety to Method in the Behavioral Sciences, Mouton et Ecole pratique des
hautes études, 1967. L’edizione italiana è a cura delle Edizioni Enciclopedia
Treccani, con il titolo Dall’angoscia al metodo nelle scienze del
comportamento, 1984. Vedi anche una breve trattazione in F. Pitto, Le
radici delle questioni attuali in psichiatria transculturale, Fogli di
Informazione n° 185, 2000
(18)
Costituzione, art. 32: “La repubblica tutela la salute come fondamentale
diritto dell’individuo e interesse della collettività” <…> “Nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione
di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana”.
(19)
E’ interessante notare che nel dibattito in Commissione Igiene e Sanità
Pubblica della Camera dei deputati, seduta del 28 aprile 1978, il relatore
Orsini sentì il bisogno, di fonte a perplessità e a critiche sollevate
soprattutto da Pannella, di ribadire l’importanza del richiamo alle norme
costituzionali che garantiscono diritti fondamentali che la pratica
psichiatrica ha sempre trascurato in nome di non si sa quale infallibilità: “Si
è detto che è enfatico, teatrale ed espressione di una sceneggiatura il fatto
che l’articolo 1 del disegno di legge si richiami ai principi della
Costituzione. Credo che questa affermazione non sia mai stata così fuori luogo
come in questo caso. Avverto profondamente come psichiatra, prima ancora che
come deputato, i valori che il disegno di legge rappresenta richiamandosi ad
affermazioni che sono di grande significato morale prima che sociale, per il
Paese: la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto
della persona umana; è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone
comunque sottoposte a restrizioni di libertà. Chiunque sappia che cosa sono
stati i manicomi e qualche volta che cosa sono….<il deputato G. Berlinguer
aggiunge “e soprattutto che cosa sono”> comprende che il richiamo a questi
principi non è superfluo”. Dagli Atti parlamentari, consultabili anche in 180
vent’anni dopo, Edizioni La Redancia,
Albisola sup. (Savona) 1998
(20)
“Il nocciolo della questione sociale d’oggi sarà dunque nuovamente l’esistenza
di ‘inutili al mondo’, di soprannumerari, e attorno a loro di una nebulosa di
situazioni marcate dalla precarietà e l’incertezza del domani, che attestano
della risalita di una vulnerabilità di massa”. Castel sottolinea che questa
condizione è tanto più grave in quanto si tratta di una “completa metamorfosi” che pone la
questione inedita di dover affrontare questa vulnerabilità dopo un regime di
protezione sociale. Vedi: R. Castel,Les métamorphoses de la
question sociale, Fayard, Paris 1955. Vedi anche : « La resistenza dei
collettivi. Lavoro, istituzione, contrattualità” in: A. Pirella, Il problema
psichiatrico, cit. Sui “bambini
iperattivi” vedi:
P. Bregging, Talking Back to Ritalin,
Common Courage Press, Monroe 1998