"Sulla strada. I senza dimora"
Convegno di studi organizzato da P.D. il 9.2.2001
Relazione introduttiva di Maurizio Caiazzo, Psichiatria Democratica Campana
l fenomeno che ci accingiamo ad esplorare si inscrive nel quadro più ampio della povertà, rappresentando di essa la parte più estrema e per certi versi "evidentemente" drammatica.
Tra i tanti modi di definire chi vive per strada quello che ci è sembrato maggiormente in grado di rappresentarne la condizione è di "senza dimora", ovvero di persona privata di un "luogo che accoglie e dove risulta fissata l’abitazione" (definizione del Devoto Oli).
Del resto nell’indagine nazionale curata dalla Fondazione Zancan di Padova, si descrive la "persona senza dimora" per l’appunto in modo stadiale, ovvero come "una persona priva di dimora stabile, in precarie condizioni materiali di esistenza, priva di una rete adeguata formale/informale di sostegno".
Nel primo stadio della definizione, infatti, la variabile discriminante per individuare le persone senza dimora è l’assenza/presenza di una casa/dimora stabile, in cui il concetto discriminante di "un tetto per la notte" è la premessa per una definizione operativa di "persona senza dimora", definita come una "persona senza casa con o senza riparo notturno". Nel secondo stadio della definizione, il focus viene spostato dalla strada alle condizioni materiali d’esistenza e alla inclusione/esclusione da rapporti e relazioni sociali.
Individuata una definizione che in qualche modo ne evidenzi la complessità, può essere utile ripercorrerne seppure brevemente e per brevi flash, la storia, ovvero come il fenomeno di coloro che oggi chiamiamo senza dimora si presenta nel suo sviluppo storico.
Pur avendo conquistato oggi maggiore visibilità (e questo è già in sé un dato interessante), le condizioni di donne e uomini "senza dimora" hanno infatti accompagnato lo sviluppo delle nostre società, seppure con implicazioni diverse a seconda dell’epoche e delle fasi considerate.
Andando indietro nel tempo, agli albori del capitalismo moderno, in quel laboratorio di sperimentazione dei nuovi ed allora rivoluzionari rapporti di produzione capitalistici, quale l’Europa ed in particolare l’Inghilterra del XVI secolo, si presenta nella forma del "vagabondaggio" e di una legislazione a dir poco sanguinaria.
Fino ai primi anni del XVIII secolo in Inghilterra ad esempio "(…) una persona che va attorno chiedendo elemosina viene dichiarata briccone e vagabondo. I giudici dei tribunali locali sono autorizzati a farla frustare in pubblico e a incarcerarla, la prima volta per sei mesi, la seconda per due anni. Durante l’incarceramento sarà frustata quante volte e nella misura che i giudici riterranno giusta… I vagabondi incorreggibili e pericolosi debbono essere bollati a fuoco con una R sulla spalla sinistra e messi ai lavori forzati; se vengono sorpresi ancora a mendicare, debbono essere giustiziati, senza grazia".
In Inghilterra, insomma, come nel resto dell’Europa, la popolazione rurale espropriata con la forza dei propri mezzi di sostentamento, attraverso la privatizzazione delle terre, viene costretta con la forza a disciplinarsi al lavoro salariato.
La presenza dei "senza dimora" e una loro funzione strutturale nei processi di valorizzazione del capitale è riconoscibile anche nell’America degli anni Venti.
N. Anderson nel 1923 rileva che i loro " problemi (…) sono da ricondursi, in un modo o nell’altro alle condizioni lavorative. L’irregolarità del loro impiego si riflette sull’irregolarità di tutta la loro vita".
R. Rauty, nell’introdurre la traduzione italiana, sottolinea come quindi la presenza dei "senza dimora" negli USA "… acquisisce spesso trasparenza sociale solo per le caratteristiche "devianti" attribuite ad essa (…). Ma quella figura rappresenta invece un "bisogno" storico dello sviluppo statunitense".
Naturalmente si tratta del bisogno di contenere l’ascesa dei salari e di disporre di forza-lavoro disponibile da utilizzare a piacimento e senza vincoli di durata.
In tutto il mondo occidentale la crisi economica del ’29 ha gettato sul lastrico milioni di persone, con la drammatica esplosione di una disoccupazione di massa senza precedenti, risolta solo grazie al conflitto mondiale, che ha "assorbito" la disoccupazione e con essa i "senza dimora".
La crescita economica del dopoguerra, realizzatasi anche grazie all’imporsi specie in Europa dello Stato Sociale quale strumento di composizione del conflitto e di redistribuzione della ricchezza, ha attenuato l’attenzione per la povertà e per la sua frangia più estrema.
All’interpretazione delle traiettorie di deriva sociale come sviluppo di "carriere morali", quali "coazioni a ripetere" comportamenti che impediscono l’uscita da una condizione di disagio e povertà, ha fatto da contraltare talvolta la descrizione della persona senza dimora come protagonista di una scelta consapevole (e romantica) di distanza da modelli di vita insoddisfacenti. Una rappresentazione, insomma, pregna di significati ideologici, tesi ad eludere il più possibile la dimensione sociale del fenomeno per sopravvalutare e spesso deformare alcuni fattori, e per occultarne evidentemente altri.
Emblematica è " …la tesi del "ciclo di deprivazione" di sir Keith Joseph, a lungo consigliere di Margaret Thatcher per le politiche sociali, che ipotizza la trasmissione della deprivazione e dello svantaggio sociale da una generazione all’altra attraverso modelli culturali peculiari delle famiglie povere".
Con la crisi del cosiddetto "modello fordista" e la crescita progressiva della disoccupazione si riaccende l’attenzione per la povertà e per le sue forme più estreme. Per di più la Crisi fiscale dello Stato riduce la possibilità di attenuare i disastri economici e sociali che l’accumulazione flessibile produce su scala mondiale.
Negli anni novanta intere popolazioni del pianeta vengono travolte da una violenta riorganizzazione del capitalismo mondiale e la guerra torna ad essere il sistema per la risoluzione dei conflitti. Un vento liberista colpisce duramente e sancisce il primato del profitto, senza più alcuna necessità di mediare e cercare compromessi.
Secondo l’Ufficio Internazionale del Lavoro delle Nazioni Unite nel 2000 nel mondo i disoccupati e i sottoccupati sono 1 miliardo (quelli dichiarati 160 milioni, di cui 50 nei paesi industrializzati), mentre 500 milioni di lavoratori sopravvivono con meno di un dollaro al giorno!
Una compressione dei salari su scala mondiale che non risparmia nemmeno i paesi cd. industrializzati.
E riesplode il fenomeno dei senza dimora.
In "Storie di barboni rasati a secco" uno splendido libro curato dall’Assessorato alle Politiche per la Promozione della Salute del comune di Roma, si citano le stime dell’OMS: "circa 3 milioni di individui nei 15 paesi dell’Unione Europea sono senza dimora. Negli Stati Uniti d’America, si calcola che gli homeless siano oltre 3 milioni, a fronte di oltre 32 milioni di persone che vivono sotto la soglia di povertà e di 6 milioni che si sono rivolte ad un dormitorio nel periodo compreso tra il 1985 e il 1990".
Circa la situazione italiana è interessante citare un brano tratto dal Rapporto annuale ISTAT sulla situazione nel paese nel 1999, in cui si disegna uno scenario davvero preoccupante.
"La povertà, in termini relativi, interessa l’11,8% delle famiglie italiane nel 1998 e in termini assoluti, sulla base di un paniere di beni e servizi essenziali, il 4,4%. Da un punto di vista comparativo, la diffusione della povertà relativa in Italia è sostanzialmente in linea con la media europea".
Fin qui nulla di particolarmente allarmante: siamo nella media! Meno rassicurante sarebbe il confronto con la situazione nel decennio precedente. Ma è più che sufficiente proseguire nella lettura.
"L’analisi delle caratteristiche delle famiglie povere conferma la presenza di più segmenti. Accanto alle fasce di popolazione tradizionalmente a rischio di povertà, quali gli anziani, le famiglie numerose e quelle di disoccupati nel Mezzogiorno, si individuano i lavoratori a basso reddito, i cosiddetti workingpoor: è il caso, ad esempio, di un certo numero di coppie monoreddito con figli minori e persona di riferimento operaia.
(…)Oltre che da difficoltà permanenti delle famiglie ad acquisire redditi, la povertà può essere provocata da eventi critici in ambito familiare e lavorativo. La prima fonte di disagio è rappresentata dal passaggio della persona di riferimento della famiglia dalla condizione di occupato a quella di disoccupato (e anche ritirato dal lavoro). Molto rilevante è anche la nascita di un figlio, soprattutto nel passaggio dalla condizione di single a quella di monogenitore, ma anche da coppia senza figli a coppia con un figlio. La separazione e la vedovanza agiscono soprattutto sulle coppie con figli minori, mentre per le altre famiglie è particolarmente critico l’ingresso di un membro aggregato, spesso anziano con reddito basso.
Se si guarda alle cause delle gravi difficoltà economiche che si possono verificare nel corso della vita, oltre alla presenza di un reddito insufficiente si segnalano alcuni eventi che non riguardano trasformazioni familiari e della condizione lavorativa. Si tratta in particolare dell’acquisto dell’abitazione, della malattia o decesso di un familiare e dell’avvio o del fallimento dell’impresa familiare".
Insomma il rapporto dell’ISTAT evidenzia come eventi "ordinari" della vita (la nascita di un figlio, un decesso, l’instabilità occupazionale…) possono provocare la caduta della povertà.
E oggi che il "lavoro fisso" non esiste più, che le pensioni sono ormai "riformate", che i salari sono ridotti, significa che la povertà è un pericolo incombente su una fascia sempre più ampia di popolazione!
Le persone "senza dimora" allora rappresentano la punta di un iceberg, la parte visibile di un malessere che affonda le sue radici nelle disuguaglianze e contraddizioni delle società contemporanee, che evoca un destino che è già comune per la crescente probabilità che possa essere anche il mio, il tuo, il nostro, o dei nostri figli…
"In Italia si calcola che le persone "senza casa" siano tra le 170mila e le 250mila unità. Circa 120mila vivono in "alloggi impropri" (baracche, container, ripari di fortuna, grotte, ecc.); 60mila (immigrati) sono in forme di coabitazione forzata; quasi 100mila persone vivono in dormitori e 20-40mila sono prive di qualsiasi riparo. Secondo una recente indagine non sembra azzardata una stima di mezzo milione di persone escluse da sistemazioni abitative, in senso proprio".
Noi lavoratori del Servizio Sanitario Nazionale, del Privato Sociale, noi impegnati nel Volontariato, noi amministratori locali, e pubblici funzionari, noi cittadini, piuttosto che rinchiuderci nei nostri saperi parziali e "separati", forse è bene che nelle nostre pratiche quotidiane ci interroghiamo sul senso dei nostri interventi, raccogliendo l’invito di Castel a chiederci: "Indigenti, infermi, mendicanti, vagabondi, vecchi e malati privi di risorse, bambini senza genitori, madri e vedove senza protezione, contadini senza terra, operai senza lavoro, (….) marginali di tutti i tipi (…). Bisogna oggi prolungare la litania, aggiungervi ad esempio i "nuovi poveri", le "famiglie monoparentali", i disoccupati di lungo periodo o i giovani in cerca di prima occupazione? (…) Non è meglio piuttosto ricomporre il paesaggio della questione sociale per definire una problematica nuova in corrispondenza dell’attuale congiuntura?"