"Sulla strada. I senza dimora"
Convegno di studi organizzato da P.D. il 9.2.2001
Relazione introduttiva di Salvatore di Fede, Psichiatria Democratica Campana
e la scelta di vivere per strada è possibile; se il desiderio e l'immaginazione che ne segue, si muovono a trasformare la realtà, per il piacere e per la percezione piena della presenza; se liberamente ci si può determinare di non essere per la norma e dunque di non avere; di perdersi anche, nell'universo delle strade che antagonizzano, sghignazzanti, nei mondi che non hanno colore e dove forti sono gli acri odori, per le strade che scorrono senza memoria delle radici; per star fuori, nel silenzio, per l'estasi: allora non stiamo parlando dei senza dimora, ma di uomini e donne che liberamente hanno scelto la strada - come il luogo magico che fu per tentare, con lo smarrimento di sé, di potersi forse ritrovare.
Se ci si sente, poi, padroni della vita per le strade dell’universo nomadico - dove ogni cosa è provvisoria, trasportabile, adattabile, trapiantabile anche qui, allora, non stiamo parlando dei senza dimora, ma di uomini e donne che intendono liberamente, ed altrimenti da noi, il proprio essere nel mondo.
Per i senza dimora, per dirla con Bukowski, (C. Bukowski, A sud di nessun nord, Sugarco, Mi) " il problema è (invece), avere quattro muri dove stare. Se si hanno quattro muri - afferma - non tutto è perduto. Ma una volta che si è sulla strada tutto è perduto, è finita. Perché rubare da mangiare se dopo non si può cucinare? E come si fa a scopare con chi capita quando si abita in un vicolo? Come si fa a dormire se tutti russano alla (...) Mission(e)? E ti rubano le scarpe? E puzzano? E danno fuori di matto? Non si può nemmeno farsi una sega. Date a chiunque quattro muri dove stare per un po' di tempo e conquisterà il mondo, vedrete".
E' di quest'umanità - fragile e dolente e che solo per dramma vive il freddo pungente dell'essere senza dimora - che oggi parliamo - straordinariamente insieme- e fuori dalle emergenze cataclismatiche.
Per capire, per costruire - e come, anche da quest'incontro che Psichiatria Democratica ha promosso - interventi ed eventi per contrastare l'esclusione sociale, i processi di impoverimento e di negazione dell'appartenenza: gli esiti di un sistema globalizzato che produce merci ed inventa i suoi consumatori, e tecnicamente scarta con la sovrapproduzione anche quanti non possono accedervi.
P.D su questo problema si mette in strada, così come è nella sua natura, al fianco dei più deboli, di chi oggi non ha dimora: tossicodipendenti, siero positivi, alcolisti e nuovi schiavi, donne già forzate alla prostituzione, immigrati costretti alla clandestinità, uomini e donne indigenti improvvisi, persone con disaggio psichiatrico che non trovano accoglienza.
Per strada perché lì essi soffrono e patiscono per strada, dentro gli steccati della anomia, della povertà estrema, dell'invalidanza psicofisica.
Per "sciarmare" (rompere e distruggere) - come ci dicevano gli ultimi internati del manicomio L. Bianchi - e subito dopo per costruire nuove politiche e pratiche sociali, per combattere dalla strada l'oppressione, che è anche quella psichiatrica, quando opera risposte al problema che possono tornare ad essere tecnoburocratiche: quelle proprie di un guardiano dell'integrità mentale, normativamente costituita dalle politiche del dominio.
Servizi di diagnosi e cura, strutture intermedie, centri di permanenza per immigrati con presidio sanitario, sono - per andare nel concreto - alcuni dei luoghi della psichiatria e della negazione della salute non solo mentale, su cui ci dobbiamo chiamare a lavorare e su cui mi proverò con voi oggi a riflettere.
La prima riflessione riguarda appunto la nostra frontiera operativa, il nostro liminare, la terra di nessuno che possono divenire gli SPDC sotto la pressione di questa crisi sociale. I Servizi di Diagnosi e Cura devono invece provarsi a dare ospitalità alla sofferenza che emerge dalla strada, allargando l'arco di visione del proprio intervento, rifiutandosi di sedare la rabbia nostalgica dei reietti del sistema, anzi promovendola con interventi strutturati e di rete, sentendosi parte utile di un sistema integrato che può dare risposte altre alle proprie, negandosi così al tentativo di farsi utilizzare come il luogo istituzionale per sancire la non appartenenza: con la segregazione, con l'etichettamento sociale, e dunque con l'esclusione. Non solo di psicofarmaci e di posti letto per la custodia, hanno bisogno i senza dimora quando entrano nell'SPDC ma di uscirne "con l'attivazione di procedure d'aiuto (per la casa, per il lavoro, per esempio, ndr), e/o (almeno, ndr) di decifrazione del senso della sofferenza, del disturbo, del suo contesto, dei fattori (che lo hanno originato, ndr)" (A. Pirella, il problema psichiatrico, CdD, Pistoia): e so che da qualche parte, anche a Napoli, questo si sta tentando anche con la collaborazione degli operatori del privato sociale.
Ancora continuando nella riflessione: se è vero come è vero che i manicomi fino al secondo dopoguerra hanno svolto la funzione di gendarme sociale (rammento di aver visto nell'archivio del L.Bianchi cartelle cliniche dell'epoca che riportano l'etichetta di "senza fissa dimora"), questi hanno anche adempiuto alla funzione di calmieratore della forza-lavoro eccedente ed infatti - secondo quanto Franco Basaglia ci ricorda riflettendo sull'esperienza goriziana e sugli intrecci tra processi economici e dinamiche di esclusione i manicomi entrano in crisi proprio negli anni della ripresa economica, del boom, anche perché "spreco di forza produttiva immagazzinata nelle istituzioni totali e (...) ostacolo alla cura ed alla reintegrazione produttiva".
Ora, la inapplicazione colpevole della 180, le resistenze a fondarla sul territorio, con le conseguenti insufficienti risorse e risposte, per e dai, servizi di salute mentale; l'incombente "disintegrazione sociale "- per usare l'espressione di Gorz - cui siamo tutti oggetto per il rimodellamento dell'economia di mercato e gli attacchi delle politiche del welfare, fanno rischiare alla psichiatria di nuovo un ruolo neoistituzionale ' necessariamente funzionale alle politiche di classe e del dominio.
E dunque anche sul problema dei senza dimora - e delle loro singole storie, della loro mancata adattabilità, flessibilità - rischiamo risposte meramente asilari, essendo chiamati di fatto nuovamente ad utilizzare tecnicamente le strutture residenziali psichiatriche - il posto letto- per invalidare e ridurre al silenzio. Strutture pubbliche che liberate grazie alla chiusura dei manicomi - a cui al di là dei facili proclami di adesione, molti hanno resistito, anche a Napoli - sono nuove risorse e spazi per abitare, per vivere. Vogliamo utilizzarle non per escludere , ma per rendere possibili i ritorni, il riappaesamento , la reintegrazione di quanti sono stati esclusi e di quelli che rischiano l'esclusione.
Ancora : contro l'invalidanza . Tutti conoscete la battaglia di P.D. per l'amministratore di sostegno e che riforma l'istituto della interdizione, residuo della norma manicomiale, che continua a produrre esclusione sociale e che, per la storia che vi racconterò, ci fa produrre persone senza dimora.
Antonio, tra un viaggio e l'altro dopo anni di durissima emigrazione in Argentina ed in Germania un giorno si ferma; alla stazione di Caserta, slaccia l'orologio, lo getta e si spoglia.
"Perché mi mancavano le tradizioni del mio paese", mi raccontò moltissimi anni dopo.
Allora lo internano: per decenni e nessuno dalle sue montagne del Matese si muoverà mai per andare a fargli un poco di compagnia.
Chiudono i manicomi, ma Antonio vi resta sino all'ultima finanziaria del '97, lo trasferiscono poi in una comunità protetta. Lì costa meno, ma così il manicomio di Aversa finalmente chiude, meglio che niente!
Antonio è ospite provvisorio di una struttura pubblica, in un nuovo paese che non è ancora il suo, dove gli hanno promesso che sarebbe tornato allorché la U.O.S.M.. di appartenenza avesse allestito una Struttura Intermedia.
E'arrivato con un sacco dell'immondizia, dentro due o tre cose personali: non vuole dare fastidio è la sua cantilena. "Pensate a stare bene", ripete. Dopo qualche tempo Antonio si lascia convincere: accetta il corredo, degli abiti nuovi. "Pensate a star bene", ripete... Poi appunto un giorno mi dice delle tradizioni del suo paese e del fiume, mi racconta della Germania e della fatica: fisicamente Antonio è curvo sui suoi anni, si fa il segno della croce al rintocco di campana e appena può recita preghiere.
Passa un anno, ne passano due. Gli altri della comunità iniziano a cambiare faccia, sorridono, escono - chi può per gli anni e gli handicaps - e qualcuno prende a lavorare: Antonio s'arrampica in cima al campanile del paese e tutte le mattine dà la corda al vecchio orologio meccanico che era fermo da prima del terremoto dell'80. Al polso ha di nuovo 1'orologio ad un suo compleanno glielo hanno regalato i compagni del Condominio (così come si chiama la comunità).
Dal suo paese o meglio dal servizio di appartenenza, nessuna notizia. Antonio non dice più "Pensate a star bene", mi dice invece che sta bene. Ed un giorno mi racconta un sogno : "Mi sono bagnato il viso al fiume e dopo ho guardato da lontano il mio paese".
Come la folgore arriva improvvisa la notizia che forse nel distretto di appartenenza territoriale di Antonio aprono la Comunità: Antonio però adesso vuole restare, dice di non aver più nessuno, e che quella dove ridiede è oramai la sua casa.
Ma le carte viaggiano con la notte.
Antonio riceve intanto assicurazioni che la sua volontà stavolta avrebbe finalmente determinato la sua vita e riprende a dare al paese il tempo che lo ospita.
Poi dalle carte e dalla loro notte, esce un tutore, non un parente, ma un tutore, vecchio, anche negli anni.
Il servizio di appartenenza territoriale reclama Antonio. I dipartimenti di competenza si scambiano delle lettere per Antonio. Di lì a poco ,un giorno se lo vengono a prendere.
Antonio esce con le valige della sua recente storia, lasciandoci nel cassetto del suo comodino il suo ultimo orologio.
Se molte letture possono esserci per gli psichiatri, quello che so è che Antonio non sta bene. Ha ripreso a soffrire nel suo paese: della nostalgia per un altro paese, quello dove aveva forse sperato di tornare a casa e di poterci anche morire.
E di nostalgia, della speranza fallita, dello scacco dell'esistenza soffrono e si ammalano tutti quegli uomini migranti, detti non comunitari, che aggiungono questo dolore profondo, al popolo dei senza dimora.
Per loro, però, sono già state elaborate delle risposte operative con i Centri di permanenza: fermati in strada o alle frontiere, vengono internati per trenta giorni in campi sorvegliati dalla polizia. Qui dormono in strutture rimediate o in containers, in sovraffollamento; in condizioni igieniche precarie; privati della libertà di uscire senza aver commesso reati, senza aver subito un processo e spesso senza esser messi in condizione di ricorrere all'assistenza legale. Nei campi l'assistenza sanitaria è spesso demandata ai militari della croce rossa, non v'è sempre la possibilità di esercitare i propri culti ed è raro trovarvi un interprete: la fuga è talvolta punita con violenza.
Il rischio è che questi centri nati come temporanei , stabilizzino tra uscite e forzati rientri - per l'impossibilità di mutare lo status di clandestino - un circuito perverso dal quale le persone migranti non possano più liberarsi: unica risorsa per sopravvivere il Centro di permanenza diverrebbe così il luogo per risolvere l'emergenza ed insieme la nuova istituzione totale per l'internamento dei migranti, la loro schedatura, il loro controllo sociale.
Se per la verità sono attivate delle esperienze sociali di prima accoglienza anche per i migranti e che, pur nelle scarse risorse si stanno articolando come percorsi di reale reintegrazione del diritto di cittadinanza e di inclusione come sono quelle realizzate dal comune di Roma grazie all'impegno di Giusy Gabriele e dall'impegno del Comune di Livorno; al contrario su scala nazionale, i Centri di accoglienza per gli immigrati si stanno realizzando in sperimentazioni timide e contraddittorie costretti a soluzioni che rischiano di essere ancora più gravi del problema. Si legge infatti testualmente, nella pubblicazione dell’iMed , ( I Centri di accoglienza pag. 29) " (...) la localizzazione del Centro è stata decisa valutando che una casa di campagna presentava minori problemi di un appartamento in uno stabile in paese, soprattutto perché in quel caso si trattava di ambulanti senegalesi i cui orari di lavoro e di rientro avrebbero disturbato un condominio".
Abbiamo voluto questo convegno che ha tema "Sulla strada i senza dimora" perché crediamo che solo ritornando a percorrere le strade che portano alle nostre aggregazioni, ai nostri villaggi della memoria, a noi come esseri sociali, possiamo tentare di costruire una mente loca/e, che ci ri-orienti, tutti:
quelli che hanno una casa,
quelli che l'hanno avuta e 1'hanno persa
e quelli che non 1' hanno mai avuta.
Salvatore di Fede