DIBATTITO SUI BARBONI: LE CIFRE,
LA RETE DI SOSTEGNO
INCHIESTA
DI
ENZO CIACCIO
Scusate
il mio parlare, sbaglio gli accenti e non ho studiato. Però scrivo i miei
pensieri sul giornalino di noi barboni. Scarp de’ tenis, si chiama. Se lo
comprate, io ci guadagno qualcosina... sapete, mi chiamo Michela: ho due figli
grandi che vanno a scuola e proprio oggi ho pagato 160mila lire di tasse».
Senza dimora. Senza
diritti. Senzatetto e senzatutto.
Una splendida chiesetta sconsacrata
nel cuore del centro antico: Psichiatria democratica, la Cgil Funzione pubblica
e il Dipartimento di Urbanistica dell’Università (con i professori Realfonso
e Moccia) lanciano il tema dei «senza casa», dei più esclusi tra gli esclusi,
di tutti coloro cui è negato ogni diritto di cittadinanza.
«Vogliamo attraversare tutti i luoghi
dell’esclusione per attivare i percorsi che conducono all’inclusione», dice
Emilio Lupo, che di Psichiatria democratica è segretario nazionale. Poi, raccontando
la molteplicità di apporti al delicato tema, aggiunge: «L’obiettivo è la nascita
delle Città sociali, l’unico filo che può riunire le mille facce della marginalità
metropolitana».
Alfio Baldi, assessore a Livorno, racconta
invece che nella sua città «il trenta per cento del patrimonio edilizio pubblico
è destinato ad abitazioni per persone in difficoltà psicofisica». L’assegnazione
della casa non la decide più il politico, ma una Commissione costituita da
operatori sociali e soggetti di varia matrice. Con questo metodo, in due anni
sono stati sistemati novanta homeless locali.
«Nel 18esimo secolo - ricorda invece
Maurizio Caiazzo, che con Sasà Di Fede ha svolto la relazione introduttiva
- il vagabondo veniva bollato con un marchio a fuoco sulla spalla sinistra.
Secondo dati Onu, nel mondo sono 500 milioni le persone che sopravvivono con
un dollaro al giorno. I Senza-fissa-dimora, in Usa sono tre milioni. In Italia,
250mila. E mezzo milione sono coloro che vivono in abitazioni che non è possibile
definire tali».
«Il problema - dice Sasà Di Fede citando
Bukowsky - è avere quattro mura. Se ce le hai, conquisterai il mondo». Dice
ancora Di Fede: «I Servizi di diagnosi e cura non dovrebbero limitarsi a fornire
psicofarmaci e posti letto. Sarebbe bello se aiutassero l’utente nelle procedure
per trovare casa o lavoro e se riuscissero a decifrare la sua profonda sofferenza».
E gli immigrati? «Anche per loro - racconta Di Fede - si allestiscono strutture
che sembrano più prigioni che luoghi di accoglienza».
E il Comune di Napoli? Il responsabile
dei servizi sociali, Carrella, sa che in Europa esistono due milioni e mezzo
di Senza-fissa-dimora. Ma non ha idea di quanti siano a Napoli. Un censimento
è in corso. Al Dormitorio pubblico, in cinque anni, hanno trovato rifugio
920 barboni. Le donne aumentano. E hanno raggiunto il 29,6 per cento del totale.
L’altro dato è che i barboni sono sempre più giovani: il 12 per cento ha tra
i 20 e i 29 anni. In cinque anni, il Comune ha trovato lavoro a 23 senza casa.
In 46 si sono riuniti alle famiglie di origine, in 6 sono andati in casa di
riposo. In 81, invece, sono tuttora al Dormitorio. E che altro fa il Comune
di Napoli? Distribuisce cento cestini viaggio al giorno, d’estate regala 500
pasti. È in atto, infine, la ristrutturazione dell’antica struttura: gli stanzoni
diventeranno camere a quattro letti, con spazi comuni, palestra e salottini.
Diversi, molto diversi e circostanziati
i dati forniti da Giusy Gabriele, assessore al Comune di Roma. Qui esiste
una Centrale operativa, che è attiva 24 ore su 24. Sono duemila i barboni
romani, solo 150 le donne. Tutti poveri, anzi poverissimi. Nove le unità di
strada. Un lavoro di pazienza: in sei mesi, trentamila contatti. E duecento
«inserimenti». «Nell’ultimo anno e mezzo - fa sapere la Gabriele - abbiamo
procurato lavoro a 460 barboni, che possono contare su dodici piccoli Centri
di accoglienza oltre alle Case famiglia e agli affitti che, grazie alla delibera
163, il comune può pagare al loro posto».
Sulle risorse utilizzabili insiste
pure il presidente della Commissione antimafia, Lumia, che avverte: «Non siamo
all’anno zero. Impariamo a usare le risorse, sapendo che bisogna fare con
e non fare per...».
Aldo Policastro, magistrato attento
al sociale, punta invece il dito contro quelle forme di accoglienza destinate
agli immigrati che, invece che accogliere, creano stati di vera detenzione:
«Il dibattito sulla sicurezza - aggiunge - ha finito per produrre più carcere
e più esclusione. In fin dei conti, una città non plurale, che emargina invece
di aggregare. E poi, l’urbanistica: in molti casi, come a Napoli negli anni
’70 e ’80, ha prodotto effetti a dir poco criminogeni. Ci sarà pure stato
qualcuno - fa notare Policastro - che a suo tempo progettò le Vele...».