PSICHIATRIA DEMOCRATICA

Franco Basaglia, l’utopia che non tramonta

di Mario Colucci


 

 

Se Franco Basaglia fosse ancora vivo oggi, che cosa ne penserebbe dei nostri giorni? A 25 anni dalla sua morte – avvenuta a Venezia il 29 agosto del 1980 – questa domanda non risulti nostalgica. Semmai potrebbe servire da occasione per una verifica di alcune sue previsioni sul futuro del funzionamento sociale e istituzionale del nostro paese. L’impresa di Basaglia non è solo legata alla particolarità della lotta al manicomio, ma è costantemente attraversata da un’interrogazione più generale sul processo di modernizzazione politica in Italia e sul protagonismo, o viceversa l’esclusione, dei soggetti deboli da questo processo: interrogazione, il cui taglio prospettico riguardo all’avvenire ha spesso tale potenza intuitiva, che appare quasi una sottile profezia dello scenario attuale.

L’utopia della realtà: è questo il vero talento di Basaglia e il lascito più prezioso che ci resta di lui dopo 25 anni. Non è un caso che sia proprio questo il titolo di una meritoria ripubblicazione di alcuni suoi scritti, da poco uscita per la casa editrice Einaudi, a cura della compianta Franca Ongaro Basaglia e con una preziosa introduzione di Maria Grazia Giannichedda.

L’utopia della realtà significa innanzitutto essere capaci di tenerli insieme questi due termini, che nel nostro mondo, invece, vengono contrapposti: la realtà come naturale e incontrovertibile, perfettamente trasparente secondo l’illusione scientifica e completamente manipolabile secondo le velleità tecnologiche; l’utopia come fantasia di un cambiamento radicale, di una trasgressione del limite e di un ricominciamento senza passato. Per Basaglia, l’uno e l’altro termine così intesi non fanno che confermare un’immagine ideologica del mondo, lontana dalla concretezza dei bisogni dell’uomo e complice di un dispositivo di potere che tende a soffocare qualsiasi contraddizione. L’utopia della realtà è invece la ricerca ostinata, nel quotidiano della nostra vita sociale, di un modo per trasformare i rapporti e mantenerli in uno stato di tensione dinamica. È la passione per un cambiamento continuo nelle pratiche, affinché le categorie dell’anormalità e della malattia restino relative e non distruggano la possibilità di scoprire sempre di nuovo le persone e le loro esistenze. È l’amore per l’opinione dell’altro, la tenace difesa del confronto e l’apertura delle contraddizioni. È la costruzione paziente della democrazia attraverso la tutela dello scambio e del conflitto di idee. È l’inno di gioia per la differenza degli uomini e delle donne e, viceversa, l’allarme di dolore per tutte le verità rigide e fondamentali.

Se Basaglia fosse ancora vivo oggi, proverebbe certo orrore di fronte allo svuotamento di senso dei gesti di partecipazione democratica e allo spostamento in alto delle strategie decisionali, anche quelle che riguardano la formazione stessa delle aggregazioni fra cittadini, spesso effetto solo di calcoli elettorali. Ma non sarebbe impreparato, perché aveva avuto già modo di assistere all’agonia del lungo sessantotto italiano, alla dissoluzione della politica rappresentativa e alla deriva violenta del terrorismo; e perché aveva cercato di porvi riparo con la costruzione di progetti di politica alternativa, occasioni originali di incontro tra le persone, con i movimenti di base, con le associazioni, con i rappresentanti di una politica attiva e diffusa, estranea ai partiti e fatta di pratiche concrete di trasformazione delle istituzioni.

Qual era l’obiettivo più importante di questa passione nell’incontrarsi e nel fare? Qual era il significato di questo nuovo modo di stare insieme nella città, dopo il ritorno nei quartieri, nelle strade, nelle piazze di coloro che la psichiatria aveva sequestrato nel manicomio? Certo, corrispondeva a una resa di diritti civili prima negati. Ma era anche e soprattutto la restituzione alla città di quel pezzo di popolo, di quella “contraddizione”, che alla città stessa era stata sottratta, nella falsa ideologia di purificarla e renderla perfetta. Quelle persone liberate dimostravano a tutti molte cose, errori commessi, mentalità sbagliate, paure senza fondamento, una separazione degli spazi e delle vite che non aveva alcun senso perpetuare e che pure era destinata a replicarsi in futuro con soggetti diversi: dai poveri, dai matti, ai drogati, agli immigrati, agli uomini di altre religioni…

Al proposito, sono molto lucide le descrizioni che Basaglia fa già nel 1969, trovandosi sull’altra sponda dell’Atlantico, in quell’America “che rappresenta concretamente il nostro futuro politico e istituzionale” e dove è possibile leggere in anticipo gli effetti di una modernizzazione globalizzata, che crea ricchezza e tecnologia, ma anche forme di marginalità improduttiva, tutta una fascia di “malati artificiali”, di esistenze al limite tra psichiatria e giustizia, tra psicopatia e devianza, e che diviene oggetto di strategie di presa in carico ora repressive ora tolleranti, in cui i concetti di norma e di malattia funzionano come “verità mobili” a garanzia della disuguaglianza. È il destino delle società avanzate e dei sistemi di welfare, anche i più innovativi: produrre marginalità e miseria quando all’assistenza e alla tutela non si accompagni promozione della partecipazione politica e visibilità del conflitto fra gli attori sociali.

Venticinque anni dopo Basaglia, ci accorgiamo quanto sia utile e complesso tenere la sua posizione e non cedere al disincanto, a cui rischia di far seguito l’abbaglio della soluzione definitiva, del gesto di potere, del valore o dell’istituzione forte da ripristinare. Rilanciare le contraddizioni ha significato e continua a significare una protezione dall’immiserimento – non solo materiale – del fragile tessuto democratico dei nostri rapporti sociali, fatto di contrasti, di differenze, ma anche di creatività e di invenzioni. Fatto soprattutto del protagonismo di soggetti alla ricerca di visibilità e voce e tuttavia a rischio continuo di squalifica, di invalidazione e di messa fuori norma.

                                               (Il Piccolo, 27.08.2005)