PSICHIATRIA DEMOCRATICA

Nichi Vendola

avanza uno strano soldato

Politico di lungo corso ma estraneo alle esibizioni della politica-spettacolo, grande logico e comunicatore ma estraneo alle vuote e equivalenti parole della politica. Innovatore del linguaggio e della comunicazione – con accenti arcaici e modernissimi – è convinto che attraverso le parole si modifichino coscienze e intelligenze e , attraverso esse, la realtà. Comunista, credente, omosessuale. I suoi maestri sono Gramsci nella formazione politica e nell’analisi, e Don Tonino Bello nella dimensione spirituale e nello slancio planetario per la pace. Vendola è un investimento per il futuro, il probabile vincitore delle elezioni regionali di Puglia, il candidato espresso per inedite, felici, convergenti situazioni, in una delle regione più interessanti dell’età della transizione. Vendola rappresenta ormai per molti una proposta generale, nuovi orizzonti del pensiero e del costume. E’ il principio-speranza l’ orizzonte dal quale si avanza questo strano soldato. di Pierangelo Di Vittorio foto di Arnaldo Di Vittorio

"Primavera pugliese”, questo il nome della lista civica per le regionali di Puglia, di cui è leader Nichi Vendola. Uomo di lunga e complessa militanza, uomo nuovo alle grandi cariche istituzionali. La sua candidatura emerge a sorpresa dalle “primarie” - un sistema nuovo, subito sospeso, che ha scosso tutta l’area del centrosinistra – per la candidatura al governo della regione.
L’incontro con lui è nella sede di Rifondazione comunista, nel cuore del quartiere Libertà, storico rione popolare della città di Bari. Alle nove del mattino l’attività è già frenetica, il candidato presidente arriva con la scorta – ce l’ ha da quando ha lavorato per dieci anni nella Commissione parlamentare antimafia – e comincia subito la sua narrazione: di ceti medi, di mafia, di non violenza, di famiglia e di famiglie. Torrenziale, appassionata, una lingua nuova per un pensiero di continuo al confine. Ma la Puglia è un’altra cosa. Vincenzo Divella - industriale della pasta e presidente per il centrosinistra alla Provincia di Bari – è da tempo al lavoro per introdurre Vendola alla imprenditoria pugliese e lo fa indossando un orecchino “alla Nichi”. Ed è subito tendenza.


Dopo anni di governo del centro-destra quando parliamo di Puglia di cosa parliamo?
Il profilo reale della Puglia è sommerso dalla propaganda, da una girandola di messaggi pubblicitari che cercano di occultare il segno prevalente del declino. Nonostante una ricca geografia delle energie e delle risorse, delle specialità imprenditoriali e culturali, ci troviamo sostanzialmente di fronte al collasso del sistema-Puglia: alla crisi radicale della filiera agro-alimentare, alla grande incertezza per tutto il tessuto della piccola e media impresa, alla fatica crescente dell’organizzazione del terziario, a statistiche assolutamente insignificanti per quanto riguarda lo sviluppo turistico, a un’assenza di politiche dell’innovazione, in un contesto nel quale, tra l’altro, il parco infrastrutturale è abbastanza vetusto. Questo è il profilo reale della Puglia.

La gestione della destra allora?
La destra è incapace di produrre una classe dirigente. E’ sì una coalizione, ma di interessi immobili, a un incrocio di corporativismi incapaci di costruire una sinergia e un racconto. La Puglia di Fitto è una Puglia orfana di missione, che vive un deficit organico di prospettiva. Questa cosiddetta classe dirigente convoca gli imprenditori pugliesi a Pontida, non è capace di contrastare la sindrome cinese, che si sta impadronendo del nostro tessuto economico, sospingendolo nella nostalgia regressiva dei dazi e delle dogane. È francamente paradossale che una terra che ha conosciuto la sua grandezza nell’apertura ai traffici e agli scambi culturali con l’Oriente, viva oggi l’Oriente come una minaccia, come un incubo.

Quando Lei parla di “politica”, di cosa parla?
La battaglia fondamentale del mondo d’oggi è la battaglia per la salvezza della politica. La diatriba sull’alternativa tra populismo ed elitismo, tra destra delle periferie e sinistra dei salotti precede l’evento fondamentale del nostro tempo: il progetto di cancellazione della politica, intesa come strumento di organizzazione delle moltitudini, come catalizzatore dei sentimenti distruttivi – rabbia, indignazione, disperazione – e come traccia di riorganizzazione di un più generale principio-speranza. L’epoca della guerra infinita e del terrorismo, la spirale guerra-terrore produce l’effetto di soffocare l’idea stessa della politica come costruzione di uno spazio pubblico, di relazione tra diversi, come sublimazione della coppia amico-nemico, in cui l’opposizione non significa distruzione. La globalizzazione liberista è la più grande privatizzazione del mondo e passa, a sua volta, attraverso una privatizzazione militare della politica.

Lei parla di un luogo dei molti dove ci si organizza e si delibera. Una volta questo luogo era il lavoro, ma oggi lavoro è il luogo della precarietà…
La precarietà, in particolare, costituisce un autentico spartiacque nell’esperienza psicologica individuale e collettiva. La precarietà è sempre stata un rito di passaggio nell’esperienza delle persone: a un certo punto, mollavi gli ormeggi della tranquillità familiare e ti lanciavi senza rete nel futuro. Tutti abbiamo conosciuto i capitomboli, i batticuori della stagione della precarietà. Il problema è che oggi la precarietà smette di essere un rito di passaggio e diventa invece un intero destino esistenziale. Ciò produce modificazioni sostanziali. Il Novecento è stato essenzialmente una grande lotta contro la precarietà: precarietà della vita, precarietà dei diritti, precarietà dell’essere al mondo. Come si è combattuta questa precarietà? Dotando il lavoro di un suo corredo di diritti e trasformandolo in un luogo fondativo della condizione sociale e comunitaria. Oggi, invece, con gli esiti delle politiche liberiste, il lavoro torna a essere merce grezza, come nell’Ottocento. Non solo spoglio di un corredo di diritti, ma anche e soprattutto svincolato da una condizione sociale. Il più povero bracciante di Cerignola era più ricco del ragazzo che oggi lavora come co.co.co. Infatti, questo ragazzo è solo, privo di legami sindacali, di classe, sociali e culturali. Solo dinanzi a un mercato del lavoro che gli appare come lo Spirito Santo. La sua solitudine è disastrosa, irreparabile. Il liberismo è il più potente moltiplicatore di solitudine che sia mai stato concepito nella storia umana. E, naturalmente, la devastazione sistematica dei legami sociali, sia nella condizione di lavoro che nella condizione urbana, produce anche un rischio di perdita di controllo, una crisi della coesione sociale, a cui il liberismo spontaneamente reagisce, riproponendo paradigmi neodisciplinari di regolazione autoritaria della riproduzione sociale.

Atomizzazione, precarizzazione del lavoro e crisi dei ceti medi. Quando parliamo di ceti medi di cosa parliamo?
L’importanza storica del ceto medio è stata non solo di esistere come un largo corpo intermedio della società, garante dell’allargamento delle basi produttive della democrazia, ma anche di aver costruito un’ideologia generale che, nella moderazione ideologica, non coltivava tanto l’angoscia del cambiamento radicale, quanto il culto della tutela delle persone, delle famiglie, degli anziani, degli ammalati, dei bambini. Tutelati attraverso un’organizzazione capillare di diritti, all’interno di un circuito dell’esercizio della cittadinanza che era fondato sulla rete dei diritti universali. Questo è venuto meno, queste classi medie non esistono più. Il nonno che, nella maggior parte dei casi, fino quindici anni fa, era integrato in una famiglia, costituita per esempio da una coppia di maestri elementari, il nonno che svolgeva un importante ruolo di raccordo con i bambini, oggi è stato espulso, perché quella famiglia non lo può più integrare. Non lo può più tenere, sia per ragioni economiche, sia perché l’indotto culturale di queste ragioni è lo smembramento della capacità relazionale delle generazioni. E la famiglia, che sul risparmio costruiva una visione del mondo, ha perso la visione del mondo, avendo perso la sua capacità di risparmio, che a sua volta aveva il suo punto di forza ideologica e psicologica nella certezza di poter produrre la progressione sociale della dinamica familiare. Oggi, con i figli laureati e disoccupati, la famiglia entra in un inciampo drammatico, e qui cade rovinosamente la capacità di autonarrazione di una classe sociale. A questa classe non importa nulla delle bandiere politiche, non guarda se il candidato ha il look del sacrestano o del no global; a questa classe, orfana di sicurezza, interessa una politica che, in primo luogo, ne racconti l’angoscia e offra una luce di prospettiva.

Dunque?
Da questo punto di vista, l’accelerazione simbolica di cui io sono portatore – nel linguaggio, nel look, nella cultura, nell’idea della politica – può essere una confusa speranza persino per la borghesia d’impresa che non vuole impiccarsi all’albero delle proprie paure. Può essere mobilitante per un’area larghissima di astensionismo sociale, che vede in essa una rottura dell’autoreferenzialità della politica. E può essere identificata come un punto di feconda conversione da parte di quello stratificato ceto medio di cui parlavamo prima.

Lei si è occupato per anni di mafia. Un fenomeno arcaico che si ripropone, un’aporia del post-moderno?
Per dirla con una battuta, la mafia, a partire dal suo nome, “Cosa nostra”, si presenta come il più efficace e sintetico programma liberista che si possa immaginare. La mafia è un’idea di radicale smobilitazione di tutto ciò che fa allusione al primato del bene comune, è la privatizzazione del territorio, della società, della politica. La mafia si è costituita come un sistema d’impresa e ha intuito meglio di altri sistemi i vantaggi della globalizzazione. Già vent’anni fa la mafia era una rete, mentre l’antimafia era un pallottoliere, un’idea assolutamente provinciale di lotta ai singoli clan. Un’impresa transnazionale che usa tutti i vantaggi derivanti dal principio della sacra e libera circolazione delle merci e dei capitali; e approfittando anche di quella strana incongruenza della globalizzazione che è il divieto alla mobilità degli esseri umani. Oggi la mafia entra nei settori fondamentali delle privatizzazioni. Prendiamo la sanità. La privatizzazione della sanità non è solo una chance per la mafia, le inchieste siciliane dimostrano che si tratta invece di un investimento di sistema, fatto attraverso la capitalizzazione degli investimenti pregressi. La mafia è una borghesia, un intero ceto sociale, un insieme di professioni, una modalità di selezione delle professioni. È la costruzione della gerarchia sociale. Questo è la mafia. E in una Sicilia in cui nessuno viene nominato primario se non lo decide il capomafia, è ovvio che l’investimento nella sanità privata, soprattutto l’investimento pubblicitario nei centri di eccellenza della sanità privata, è un investimento strategico.

Mafia presente nelle eccellenze, ma anche nella gestione delle strutture per i cosiddetti cronici, gli anziani o malati psichiatrici…


La mafia non butta via niente, né delle sue attività tradizionali, né, guardando all’oggi, di tutte le possibili articolazioni del mercato. Era mafia rurale e, quando è diventata mafia della città, non ha abbandonato le campagne, ma con i mercati ortofrutticoli ha controllato le città continuando a presidiare il latifondo; diventata mafia del narcotraffico, non ha smesso di essere né mafia urbanistica né mafia rurale; diventata sistema d’impresa transnazionale, non ha smesso di controllare tutto il resto. La capacità di essere una sintesi geniale fra tradizione e futuro è un po’ la cifra della sua forza di penetrazione. La mafia non si spiega con il sottosviluppo, con l’arretratezza economica, è al contrario uno dei pilastri di una certa idea di modernizzazione, di una modernizzazione “drogata” dei territori. La mafia è un architrave del modello di sviluppo, della formazione neo-capitalistica. Contemporaneamente, però, essa gestisce i territori del sottosviluppo, del disagio e del degrado, sia come infiniti bacini di reclutamento della propria manodopera, sia come l’oggetto spasmodico della propria cura egemonica, della propria capacità di ricostruire il circuito del consenso. È un impasto d’ideologia del dominio e d’ideologia dell’egemonia; una mescolanza di strumenti tipici del comando autoritario (violenza, intimidazione, eliminazione fisica degli avversari) e di elementi tipici della democrazia populista, ossia della capacità di presentarsi come l’oggettivo, naturale mediatore sociale dei conflitti tra le persone.

Vendola “uno strano soldato”. Comunista, credente, omosessuale, poeta, leader politico, comunicatore arcaico e attuale. Una icona complessa. Come orientarsi?
Nella grande chiesa del Pci, le differenze di percorso e di cultura dei singoli venivano accolte e offerte alla pubblica conoscenza come la dimostrazione di un’apertura del partito alla ricchezza delle personalità. Ma era una ricchezza tutta orizzontale, che difficilmente incrociava la formazione verticale di cultura politica. Sto parlando di un partito fortemente segnato dalla straordinaria egemonia di Gramsci, quindi non un partito dogmatico o ateista o anticlericale. Tuttavia, queste differenze restavano un dato delle persone...

Pubblico e privato…
Era un po’ come il fenomeno degli indipendenti di sinistra, una specie di riserva delle libertà che le persone si prendevano pur stando dentro il Pci. Questa storia è stata trasformata dal femminismo, da ciò che il femminismo ha portato nella cultura comunista tradizionale in termini di rottura di paradigmi fondativi della pratica politica. La mia storia è leggibile solo all’interno di questa rottura.
Non è che Nichi Vendola abbia fatto qualcosa di particolare, è stato portato dall’onda della cultura delle donne. L’onda della critica alla finta neutralità dei modelli di selezione della rappresentanza politica, della classe dirigente. L’onda della critica al partito padre-padrone, patriarcale, al partito dei padri, e al partito “asessuato”, a un modello di lotta politica che non si accorgeva di quanto le relazioni tra i sessi fossero una delle più straordinarie vicende, simboliche ed effettuali, di lotta politica generale. La sessualità è la miniatura, direi di più, è la filigrana dei rapporti di potere. La mia storia è inscritta in questa vicenda, fatta di rotture, di critiche e di tentativi d’inventare un rapporto tra le lotte politiche specifiche e la lotte politiche generali. Le mie tensioni, con il partito, con il movimento gay, s’inseriscono in una temperie, in una stagione, in una storia.

Lei è anche credente.
Infatti, persino la mia religiosità, il mio cristianesimo militante appartiene a questa storia. Soprattutto dopo il 1989, dopo il salutare crollo del comunismo novecentesco, dopo la morte dell’incubo. E dopo che ci siamo ripresi la libertà di dirci comunisti senza sentirci interrogati dai gulag e dal genocidio, ma ri-fondando al contrario il nostro essere comunisti sull’avversione al sistema dei gulag e del genocidio. In quest’opera di riscrittura, di ricostruzione, di rifondazione, i materiali delle nostre corporeità, le ansie di trascendenza, non sono rimasti una narrazione individuale da inserire nel pentagramma della politica. Sono diventati invece i materiali eterogenei della costruzione di un nuovo alfabeto della politica. Per cui, nella rifondazione del pensiero e della pratica comunisti, la traccia fondamentale – ecco la discontinuità fondamentale rispetto a tutto il Novecento – è stata un’idea di libertà, di desiderio, di sessuazione del mondo, d’illuminazione delle cose. Un comunismo battesimale, biblico...

Critica alla violenza, rifiuto della violenza. Il comunismo italiano si divide su questo. Lei cosa ne pensa?
Sta per uscire un mio libro, intitolato Soggetti smarriti, ma che in realtà fu pubblicato per la prima volta tredici anni fa: il cuore di questo libro è un ragionamento sul fatto che il comunismo, che la trasformazione radicale debba essere necessariamente ripensata come critica dei codici della violenza e come ripudio pratico di qualsiasi forma di violenza. La violenza che usammo per cambiare il mondo attraversò il nostro cuore, lo rese di tenebra e ci rese simili a quelli che volevamo abbattere, perché erano troppo violenti. Questi furono i nostri ragionamenti di allora, ma era un’epoca in cui non c’era la guerra infinita, che propone un futuro nel quale esiste un unico Palazzo d’Inverno planetario ed è il sistema complesso della violenza, sia nei suoi aspetti di organizzazione statuale, sia nei suoi aspetti di etica sovversiva. La violenza è oggi in se stessa il terreno di moltiplicazione della privatizzazione della politica. La nonviolenza è dunque l’unica genesi possibile di un nuovo millennio della rivoluzione, di un nuovo alfabeto dell’alternativa di vita e di società: la critica della violenza parla infatti del me sessuato, del me che difende le specie minacciate di estinzione, del me che difende le biodiversità ecc.

La Sua famiglia, la cerchia affettiva della Sua formazione culturale e politica?
È un’agorà di personalità forti, portatrici di racconti ricchi, è una babele festosa. Penso all’umanità vulcanica di mia madre Tonia, femminista senza cultura, senza letture, un’ottantenne che farebbe il giro del mondo in autostop; e a mio padre, con la sua capacità di mettersi in discussione, con la sua inesausta curiosità. A ottantaquattro anni, dice: “Ah, come vorrei non morire per poter studiare le tecnologie informatiche!”. Lui che ha fatto l’impiegato postelegrafonico ed è diventato comunista dopo aver letto Steinbeck e Cronin. Poi ci sono i miei fratelli medici, con i loro cinque figli, e mia sorella, ottica, ma soprattutto viaggiatrice irrefrenabile... tra un viaggio e l’altro trova anche il tempo di lavorare nel suo negozio. E poi c’è il cane, Fidel, il più allegro e intelligente bastardo del mondo! È una rete infinita, che mi avvolge come un lungo rotolo di affetti. Nella famiglia di mio padre erano undici figli, in quella di mia madre nove: provate a immaginare quanti cugini posso avere, e come questa matassa possa reintrecciarsi, ogni qual volta ci riuniamo, in certi momenti di dolore o di festa... La mia famiglia è un viaggio, è molto aperta, una carovana in perenne movimento.

© 2005 Galatea - european magazine - concept Studio Baka Sa - development WebDesignStudio