PSICHIATRIA DEMOCRATICA

 

Se si chiude il palazzo di giustizia, Il manifesto, 9 maggio 2004

 

Ci sono fatti che, seppur apparentemente isolati, segnano pesantemente la vicenda politica e le stesse regole di convivenza. Ne segnalo alcuni, accaduti nei giorni scorsi nel nostro Paese, anche per cogliere il filo che li lega ad alcuni mutamenti istituzionali in atto.

Primo. A Melfi, dopo anni, la polizia è intervenuta pesantemente per disperdere i manifestanti che presidiavano lo stabilimento Fiat durante lo sciopero e per “garantire il diritto al lavoro di chi voleva entrare in fabbrica”. Un conflitto sociale delicato e complesso, determinato da una situazione risalente di salari compressi e differenziati in negativo rispetto alle altre fabbriche Fiat, di livelli anomali di intensità di lavoro, di controlli capillari con sanzioni disciplinari crescenti è stato trasformato (o meglio, si è tentato di trasformarlo) in questione di ordine pubblico da risolvere con cariche e manganelli. Il metodo e il linguaggio ricordano in modo sinistro gli anni ’50. E, sullo sfondo c’è la tendenza a condizionare dall’esterno le dinamiche sindacali e a realizzare nuove politiche di ordine di pubblico, sostituendo la logica del confronto con una concezione muscolare dell’ordine (già evidente nella ostentata militarizzazione delle città in occasione di qualunque manifestazione).

Secondo. La tortura (orribile ferita ai corpi delle persone e alla dignità umana) si è affacciata non solo come inevitabile e coerente appendice di una guerra ingiusta ma anche come questione di politica interna e di regolamentazione legislativa. Speravamo per bandirla definitivamente, scrivendo a chiare lettere che l’integrità fisica e morale di chi si trova sottoposto all’altrui autorità è un diritto fondamentale, incondizionato, assoluto, intangibile. E, invece, un ramo del Parlamento ne ha affermato l’illegittimità solo se “reiterata” (sic!), così proclamandone, di fatto, l’ammissibilità se praticata in un’unica occasione. Le leggi valgono, spesso, a giustificare, ex post, le prassi. E siamo tuttora in attesa di smentite alla notizia, pubblicata il 1° dicembre 2003 dal Corriere della sera, dell’uso, nelle indagini svolte in Irak dai carabinieri italiani dopo l’attentato di Nassirya, di pratiche inumane e degradanti (“nelle indagini quattro persone sospette sono state fermate. La procedura seguita dai carabinieri è quella imposta dagli Stati Uniti, che alla fine li hanno presi in consegna: i quattro sono rimasti chiusi in una cella al buio, inginocchiati, senza acqua né cibo, per quattro giorni. Una tecnica che mira a far crollare i prigionieri e spesso li porta a confessare”).

Terzo. La vita e l’incolumità fisica sono beni superiori, sul piano dei valori, a quelli patrimoniali. È per questo che nella civiltà dei moderni – e persino nel codice penale del fascismo – la difesa privata contro le aggressioni altrui è considerata legittima solo se “dettata dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona” e “sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo”. È, nel nostro sistema, una norma ferma e indiscussa da cent’anni. Ma nei giorni scorsi il ministro della giustizia e la maggioranza parlamentare ne hanno proposto e votato la modifica fino a parificare, sul piano dei valori, beni e vita, sull’onda di una ossessione sicuritaria che già ha portato a raddoppiare la popolazione carceraria (dai 25.804 detenuti del 31 dicembre 1990 ai 54.237 della stessa data del 2003), pur in una situazione di costante diminuzione, dal 1991 ad oggi (e con una lieve recrudescenza nell’ultimo anno), dell’andamento della criminalità.

Mesi fa, in una occasione sbagliata (le perquisizioni presso alcune società calcistiche) ma con un, forse involontario, scatto di sincerità, il presidente del consiglio ha dichiarato che “si va allegramente verso uno stato di polizia…”.

È in questo contesto che si collocano importanti mutamenti istituzionali. Tra questi, la modifica dello status di giudici e pubblici ministeri in discussione alla Camera e che ha determinato la proclamazione dello sciopero dei magistrati. I contenuti della “riforma” sono noti: trasformazione dei magistrati in burocrati selezionati con procedure concorsuali e organizzati in modo gerarchico, separazione di fatto delle carriere di giudici e pubblici ministeri, fine dell’azione penale diffusa e ripristino del potere assoluto dei procuratori della Repubblica, emarginazione del Consiglio superiore, introduzione di un controllo politico sui magistrati mediante la previsione di ipotesi di responsabilità disciplinare addirittura per l’attività interpretativa sgradita. Ed è altrettanto noto l’obiettivo perseguito: far tornare la magistratura ad essere, come negli anni  ’50 e ’60, «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un "corpo separato" dello Stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili» (L. Ferrajoli).

Tutto si tiene, occorre esserne consapevoli. L’indipendenza della magistratura – lo sappiamo - non garantisce in modo meccanico giustizia, libertà e uguaglianza per tutti; è, peraltro, una delle condizioni per rendere possibile tale risultato. È per questo che la riforma dell’ordinamento giudiziario (e il trasferimento di competenze e poteri dalla giurisdizione all’amministrazione che ad essa si accompagna) non è altro rispetto alle trasformazioni in atto sul piano sociale e politico. V’è di ciò un’immagine nitida e drammatica: tra il 20 e il 22 luglio 2001 a Genova, mentre (in concomitanza con gravi quanto circoscritti atti di vandalismo e devastazione nel corso delle manifestazioni contro il G8) si apriva una nuova stagione nelle politiche di ordine pubblico, il palazzo di giustizia era chiuso. C’erano, forse, alcuni pubblici ministeri barricati nei loro uffici, ma per i cittadini, per gli avvocati, per i giudici il palazzo era chiuso: in quei giorni Genova non aveva bisogno della giustizia. È un’immagine che non vorremmo rivedere.

                                                                                                                       

                                                                                                                   

livio pepino

presidente di Magistratura democratica