PSICHIATRIA DEMOCRATICA

  Sciopero perché,  Unità, 8 maggio 2004
 

Anche i magistrati infine, dopo attese e ripensamenti, hanno proclamato lo sciopero. Anche i magistrati, dopo medici, tranvieri, metalmeccanici, insegnanti, ferrovieri, piloti, giornalisti e via elencando. Perché, dunque? Per preconcetta opposizione corporativa a ogni progetto di cambiamento della giustizia, come provocatoriamente sostiene il ministro Castelli? o per ostilità politica nei confronti del governo, come pateticamente affermano autorevoli esponenti della maggioranza (tra cui magistrati “apolitici” come il sen. Bobbio e l’on. Nitto Palma)? Ovviamente le ragioni sono ben altre.

C’è anzitutto per una questione di metodo. Dopo l’approvazione da parte del Senato di un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario criticato persino da chi lo aveva votato, il relatore e il presidente della Commissione giustizia della Camera avevano manifestato disponibilità al dialogo, dichiarando di apprezzare le proposte alternative avanzate dall’Associazione nazionale magistrati e dicendosi intenzionati a tenerne conto e, in alcuni casi, addirittura a recepirle. Di qui la sospensione dello sciopero già proclamato. Ma la  “nuova fase” di confronto si è chiusa, in realtà, ancor prima di cominciare: i cinquecento emendamenti presentati (evidentemente a mero scopo dilatorio) da parlamentari dell’area governativa sono stati ritirati e sostituiti da poche modifiche “blindate” (talune delle quali peggiorative del testo approvato dal Senato), il dibattito parlamentare è ripreso con tempi contingentati e la maggioranza dichiara di voler approvare il nuovo testo entro il mese di maggio. Il confronto si nutre anche del rispetto degli impegni pubblicamente assunti: chi, stracciando quegli impegni, cerca lo scontro non può fingere sorpresa di fronte alle conseguenze del suo comportamento. Ed è grottesco il tentativo di far credere, come se tutto fosse manifesto elettorale, che le “richieste” dei magistrati sono state in buona parte accolte …

C’è poi, ovviamente, il merito. Il disegno del governo e della maggioranza resta invariato. Ciò che si propone è: a) la trasformazione dei magistrati in burocrati, con una selezione fondata non sulla capacità di “rendere giustizia” ma su un tourbillon di concorsi teorici (idonei, come la storia insegna, soltanto a “promuovere” chi è omogeneo ai selezionatori); b) un’organizzazione del sistema giudiziario di tipo gerarchico, con conseguente forte condizionamento dei singoli; c) la separazione di fatto delle carriere di giudici e pubblici ministeri, non temperata dal concorso unico iniziale (caratterizzato da una sorta di “prescelta” all’atto della iscrizione e dalla scelta definitiva tre anni dopo l’ingresso in carriera); d) la fine dell’azione penale diffusa e il ripristino, con la centralizzazione dell’ufficio del pubblico ministero e la reintroduzione del potere di avocazione, del potere assoluto dei procuratori della Repubblica (veri “signori del processo”); e) la contrazione del governo autonomo (e dunque dell’indipendenza) dell’ordine giudiziario, attuata sottraendo al Consiglio superiore rilevanti poteri in tema di formazione, di organizzazione degli uffici, di promozioni; f) l’introduzione di una sorta di controllo politico sui magistrati, realizzata attraverso la previsione di ipotesi di responsabilità disciplinare per l’attività interpretativa e la partecipazione alla vita pubblica. L’obiettivo è il ritorno al passato, alla situazione precedente la Costituzione e a quella degli anni ’50 e ’60, quando – per usare le parole di Luigi Ferrajoli – la magistratura era «un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un "corpo separato" dello Stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili».

Lungi dall’essere questione corporativa la riforma dell’ordinamento giudiziario incide sui diritti di tutti e sulle regole della convivenza. A chi, anche nell’opposizione, mostra di non comprenderlo è opportuno ricordare che il tentativo di modificare lo status di giudici e pubblici ministeri non è isolato ma si accompagna a inquietanti regressioni nella tutela delle libertà fondamentali: si propone - anzi si vota - la punibilità della tortura solo se “reiterata” (così autorizzando, di fatto, quella praticata in un’unica occasione); si estende – anche qui con un voto parlamentare - l’ambito della “legittima difesa” oltre ogni limite di proporzionalità tra i beni in gioco; si ripropone la tendenza a risolvere in chiave repressiva (anziché con la mediazione) il conflitto sociale, come insegnano le cariche di Melfi. In questo contesto l’indebolimento del controllo giudiziario non è casuale. È bene tenerlo presente prima che sia troppo tardi.

 

 

livio pepino

presidente di Magistratura democratica