LA PROPOSTA DI LEGGE CIRIELLI:
EMBLEMA DEL DIRITTO DISEGUALE
a cura di Magistratura democratica
1. Il trionfo del "doppio binario"
La proposta di legge n. 2055/A approvata dalla Camera dei Deputati il
16 dicembre 2004 è l'ultima tappa della realizzazione, da tempo
in atto, di un “diritto diseguale”.. Non ci sono, alle sue
spalle, solo gli interessi contingenti di uno o più imputati eccellenti;
c'è anche il progetto politico culturale (non nuovo ma qui perseguito
con particolare intensità) di strutturare il sistema penale sul
doppio binario dell'impunità per i colletti bianchi e della "tolleranza
zero" per la devianza degli esclusi (cioè dei settori marginali
o semplicemente non inseriti della società).
L'obiettivo è un diritto sostanziale e processuale differenziato:
come nell'ottocento, implacabile per i "briganti" e declamatorio
e privo di ogni effettività (fino allo scandalo) per i "galantuomini".
Emerge un nuovo tipo d'autore, il "recidivo reiterato", destinatario
non solo di pene assai più elevate, ma anche di periodi prescrizionali
più lunghi e di un trattamento penitenziario molto più severo.
Da un lato vi è un generalizzato inasprimento degli aumenti di
pena per chiunque, già condannato per un delitto non colposo, ne
commette un altro; dall’altro, nel caso in cui sia commesso uno
dei delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett. a cpp, l’aumento
per la recidiva è obbligatorio ed in alcuni casi non può
essere inferiore ad un terzo della pena. Se poi i reati in concorso formale
o in continuazione sono commessi da un soggetto recidivo reiterato (da
soggetto recidivo, cioè, che commette altro delitto non colposo),
l’aumento di pena non può essere inferiore ad un terzo della
pena stabilita per il reato più grave. E – si badi –
il riferimento non è necessariamente a criminali incalliti, ma
anche a persone che hanno riportato due condanne per delitti non colposi,
indipendentemente dal tempo trascorso e dalla natura dei reati commessi
(sì che rientra nella categoria, per esempio, anche l'autore di
un furto in supermercato e di una resistenza a pubblico ufficiale commessi
a dieci anni di distanza l'uno dall'altro). L'impostazione è quella,
demagogica e inefficace, della “tolleranza zero”, adottata,
per di più, quando l'esperienza applicativa decennale ne sta mostrando
i limiti anche negli Stati Uniti (che ne sono il paese d'origine), dopo
essersi rivelata illusoria, in tempi passati, anche nel nostro Paese.
Eppure i fatti sono univoci: nessuna reale dissuasione si è mai
ottenuta aumentando le pene e inasprendo il trattamento penitenziario;
il contrasto duraturo della devianza e della criminalità minore
passa per le ben diverse strade di una seria strategia (specie sociale)
di prevenzione e di integrazione, del controllo del territorio, di processi
più rapidi, di una politica penitenziaria di recupero. Ma per far
ciò non ci sono né investimenti né volontà.
E non è tutto. Sull'altare del trattamento differenziato e dell'illusione
repressiva vengono sacrificati valori fondamentali. Due in particolare.
Anzitutto viene drasticamente ridotta la discrezionalità del giudice,
sostituita in molti casi (concessione delle attenuanti, giudizio di bilanciamento
delle circostanze, aggravamenti di pena per recidiva, applicazione di
benefici penitenziari) con automatismi che impediscono ogni valutazione
della gravità del fatto e della personalità dell'imputato.
Il problema non è, ovviamente, il potere del giudice, ma l'equità
della decisione. L'eccessiva discrezionalità giudiziaria conseguente
alla troppo ampia forbice tra minimo e massimo della pena per taluni reati
non si argina con automatismi, che producono solo disuguaglianze odiose
(non importa, sotto il profilo sistematico, se in melius o in peius).
La strada per correggerla è quella già delineata dal progetto
di riforma del codice penale della Commissione presieduta dal prof. Grosso
(revisione del sistema delle attenuanti, rivisitazione e ridimensionamento
delle pene, aumento della gamma delle pene principali), mentre gli interventi
prospettati nel progetto in esame producono solo ulteriori iniquità:
sanzioni assai miti o prescrizione per fatti gravi, sol perché
commessi da incensurati abbienti (e dunque in grado di difendersi dal
processo) e pene severissime per reati di limitata entità sol perché
commessi da devianti marginali.
In secondo luogo l'approvazione della proposta di legge avrà effetti
gravissimi sulla stessa effettività del processo nei confronti
delle categorie privilegiate. Una prescrizione breve e l'eliminazione
degli effetti della sua sospensione lasciano, infatti, il processo senza
difese a fronte di strategie puramente dilatorie e di impugnazioni pretestuose
(che si dilateranno a dismisura, ben oltre il già elevatissimo
livello attuale). L'obiettivo del processo cesserà di essere il
confronto sul merito per diventare il raggiungimento della prescrizione,
con effetti devastanti sull'intero sistema (esposto a estenuanti scontri
su legittimi impedimenti, legittimi sospetti, richieste di rinvio e al
collasso delle corti di appello e della Corte di cassazione). Ciò
comporta – è bene saperlo – la definitiva rinuncia
a qualsiasi obiettivo di processi celeri e la trasformazione della prescrizione
da civile rinuncia della pretesa punitiva quando appare ormai inutile
in amnistia permanente.
2. La nuova disciplina delle attenuanti
L’impostazione differenziata è di tutta evidenza nella disciplina
prevista per le attenuanti, in particolare quelle generiche. L'obiettivo
è esplicito: "fare tabula rasa della situazione di incertezza
che la precedente formulazione della disciplina comportava in virtù
proprio delle caratteristiche delle attenuanti generiche che sono l'elasticità
e la flessibilità del contenuto”.
Con l'art. 1 si introduce tra le circostanze di cui all'art. 62 del codice
penale una ipotesi specifica (n. 6 bis) di attenuante per chi, al momento
della commissione del fatto, aveva compiuto settanta anni di età
e, al momento della sentenza, non si trova nelle condizioni di cui all’art.
99 dello stesso codice (recidiva). In fatto la conseguenza è automatica:
i primi beneficiari della norma, che ha dirette ricadute non solo sull'entità
della pena ma anche sul regime della prescrizione, saranno noti imputati
eccellenti, formalmente incensurati ancorché già raggiunti
da pesanti condanne in primo grado.
Al contrario, l’art. 2 dello stesso disegno di legge elimina la
possibilità di ricondurre la concessione delle circostanze attenuanti
generiche alla valutazione discrezionale del giudice nell'ipotesi dei
delitti previsti dall’art. 407, comma 2, lett. a del codice di procedura
penale, nel caso in cui gli stessi siano puniti con una pena non inferiore
nel minimo a cinque anni e siano stati commessi da chi è recidivo
reiterato; viene esclusa, così, la possibilità di fare riferimento
all'intensità del dolo, ai motivi a delinquere e al carattere del
reo, al tempo trascorso, ad ogni valutazione sulla vita del reo, sul suo
reinserimento, sul comportamento successivo alla commissione del reato,
compreso quello processuale (a prescindere dall'esercizio del legittimo
diritto al silenzio).
Nell'ipotesi dei recidivi reiterati, inoltre, la nuova normativa (art.
3) modifica l’art. 69 del codice penale, introducendo l'espresso
divieto di operare un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti
rispetto alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, come –
appunto - la recidiva reiterata. Il giudizio di prevalenza delle circostanze
attenuanti è inoltre precluso in caso di concorso con le circostanze
aggravanti della determinazione alla commissione di un reato di persona
non imputabile o non punibile in ragione di una condizione o qualità
personale, della determinazione alla commissione di un reato di un minore
degli anni diciotto o di una persona in stato di infermità o deficienza
psichica, dell’essersi comunque giovato della loro opera nella commissione
di un delitto per il quale è obbligatorio l’arresto in flagranza.
Questa disciplina, nel suo complesso, costruisce uno schema vincolato
che scardina tutti i parametri utilizzabili nella quantificazione della
pena (si pensi, per tutte, all'ipotesi di un'attività di collaborazione
che, pur non integrando gli estremi della attenuante specifica, abbia
rappresentato un utile strumento per l'espletamento delle indagini) e
pone consistenti dubbi di legittimità costituzionale. In particolare,
l'applicazione obbligatoria dell'aumento di pena per i recidivi in caso
di commissione di uno dei delitti di cui all’articolo 407, comma
2, lettera a, cp, senza possibilità, per il giudice, di valutare,
ai fini della determinazione della sanzione, altri elementi sembra contrastare
con l’art. 27, comma 3, della Costituzione, secondo cui le pene
devono tendere alla rieducazione del condannato. Difficile negare che
questo impianto, collegato alla scelta “necessitata” dei riti
alternativi da parte dei soggetti deboli, accentua la curvatura di un
diritto penale diseguale.
3. L'amnistia permanente, ovvero la variante mite della prescrizione
La proposta di legge prevede che la prescrizione sia legata alla pena
edittale massima stabilita per ciascun reato, con un limite minimo di
sei anni per i delitti e di quattro per le contravvenzioni.
Un primo rilievo: mentre per le contravvenzioni il trattamento sarà
meno favorevole di quello vigente e la legge si applicherà solo
ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (restando priva di conseguenze
sui procedimenti in corso), per i delitti la nuova disciplina è
sempre più favorevole all'imputato e, quindi, di immediata applicazione.
Ad esempio, per un reato punito nel massimo con la pena della reclusione
di cinque (o sei) anni il termine complessivo per la prescrizione viene
ridotto dagli attuali quindici anni (comprensivi dei periodi di interruzione,
ma non di quelli delle sospensioni non determinate da esigenze di acquisizione
della prova o dalla concessione di un termine a difesa) a sette anni e
mezzo (cioè il minimo, di sei anni, aumentato di un quarto); per
un reato punito con pena non inferiore nel massimo a otto anni di reclusione,
la prescrizione non può superare comunque i dieci anni, e così
via.
Per rendersi conto degli effetti di un disciplina siffatta, è bene
tener presente che tra i principali reati punibili con pena non inferiore,
nel massimo, a cinque anni di reclusione figurano, tra gli altri, la rivelazione
di segreti di Stato (art. 261 cp), l’utilizzazione di segreti di
Stato (art. 263 cp), l’attentato contro i diritti politici del cittadino
(art. 294 cp), la corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art.
319 cp), la violenza o minaccia a pubblico ufficiale (art. 336 cp), la
resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 cp), il millantato credito (art.
346 cp), la frode nelle pubbliche forniture (art. 356 cp), il favoreggiamento
reale (art. 379 cp), l’attentato alla sicurezza dei trasporti (art.
432 cp), la truffa in danno dello Stato o di enti pubblici (art. 640,
cpv, cp) e che tra quelli puniti con pena pari, nel massimo, a sei anni
figurano l'attentato per finalità terroristiche o di eversione
(art. 280 cp), la calunnia (art. 368 cp), numerose ipotesi di falso, la
truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640 bis cp),
l'usura (art. 644 cp), la ricettazione nel caso di particolare tenuità
(art. 648, cpv, cp) e tanti altri che finora avevano una prescrizione
di quindici anni (e che vedranno dimezzati i termini prescrizionali).
Se si tiene conto della durata media di un processo di merito, si può
ragionevolmente concludere che quasi tutti i processi per reati puniti
con la pena della reclusione compresa nel massimo tra i cinque e i sei
anni e la grande maggioranza di quelli per reati puniti con la pena della
reclusione massima di otto anni sono destinati a sicura prescrizione.
Altro aspetto gravemente irrazionale della disciplina è che, nel
caso di reato continuato, la decorrenza della prescrizione non viene più
rapportata all’unicità dei reati unificati, ma viene ad essere
frazionata in tanti segmenti, così da far prescrivere più
rapidamente gli episodi più vecchi, seppure facenti parte del medesimo
disegno criminoso.
Ma v'è di più. Il prolungamento del termine di prescrizione
è consentito solo in caso di interruzione e di sospensione del
suo corso, ma non può comunque superare un quarto della durata
massima. Questa parificazione della sospensione all'interruzione della
prescrizione è, a ben guardare, l'aspetto di “sistema”
più grave della prospettata riforma. Com'è noto, i due istituti
sono radicalmente diversi in quanto la sospensione del corso della prescrizione
sottrae dal computo una serie di eventi che rappresentano una “pausa”
del corso processuale, mentre l'interruzione rappresenta il fenomeno contrario
e cioè l’evento processuale che scandisce l'iniziativa dell'autorità
giudiziaria per perseguire il reato. Spesso, peraltro, la sospensione
del processo dipende da un evento sottratto alla disponibilità
dell'autorità giudiziaria (ad es. le questioni rimesse alla Corte
costituzionale o la richiesta di autorizzazione a procedere) e mettere
insieme i due istituti, facendo rientrare la sospensione entro il limite
massimo, costituisce un evidente incentivo a tattiche dilatorie. Il progetto
si pone persino in controtendenza con alcune leggi, come la n. 248 del
2002 (cd legge Cirami) sulla rimessione del processo, che, per evitare
un ingiustificato allungamento dei processi verso una sicura prescrizione,
avevano previsto la sospensione dei termini di prescrizione, e ciò
nell’attuale regime normativo che fa dei casi di sospensione delle
pause nel decorso del termine prescrizionale, che così non risulta
da esse eroso. Rimettere, nei casi di sospensione del processo, la disponibilità
dei tempi processuali all'imputato, oltre ad incentivare manovre dilatorie,
finisce per porre la maturazione della prescrizione nelle mani di chi
deve subire il processo.
Il regime dell’aumento della prescrizione per l’interruzione
e la sospensione, viene poi trattato in modo differenziato nel caso in
cui ci si trovi in presenza di soggetti recidivi, di soggetti dichiarati
delinquenti abituali o delinquenti o contravventori professionali, o infine
dei delitti di cui all’art. 51, 3 bis, cpp, così accentuando,
anche in questo caso, la doppia disciplina in funzione del “tipo
d’autore”.
La disciplina vigente merita di essere riconsiderata, ma in direzione
contraria a quella proposta che, a causa della sua applicazione retroattiva,
è in grado solo di determinare una prescrizione diffusa. Ciò
che occorre è rendere razionale il sistema (e non mancano le proposte:
da quella più drastica di prevedere la prescrizione solo sino all'esercizio
dell'azione penale a quella di adeguarla alle varie fasi del processo,
fissando un termine per ogni fase, così da assicurare effettività
e funzionalità all’azione giudiziaria di perseguimento dei
reati e, nel contempo, certezza all’imputato).
4. Le disparità di trattamento in materia penitenziaria
Il disegno di legge n. 2055 C incide pesantemente anche sul settore dell'esecuzione
penale stabilendo, nei confronti dei condannati ai quali è stata
applicata in sentenza la recidiva ai sensi dell’art. 99, comma 4,
codice penale (si tratta dei cd. recidivi reiterati), una serie di rilevanti
restrizioni nell'accesso ai benefici.
In primo luogo, con la modifica dell’art. 656, comma 9, del codice
di rito, i plurirecidivi non potranno più beneficiare dell'automatica
sospensione dell'ordine di esecuzione (introdotta – come noto -
dalla legge Simeone-Saraceni per evitare che le persone culturalmente
meno consapevoli o difese con minor diligenza, potessero incorrere nell'esecuzione
dell'ordine di carcerazione, non essendo a conoscenza dell'avvenuto passaggio
in giudicato della condanna e dell'onere di formulare la richiesta di
misura alternativa). Tale restrittiva disciplina produrrà, ovviamente,
un rilevante incremento degli ingressi in carcere, anche in casi di modestissima
pericolosità, dal momento che la nozione di recidiva reiterata
delineata dal comma 4 dell’art. 99 del codice penale è del
tutto generica e non distingue tra tipologie di reati: con il rischio
che il passaggio in carcere alteri equilibri personali e sociali faticosamente
raggiunti. L'incremento del tasso di carcerizzazione sarà particolarmente
significativo per i tossicodipendenti, atteso l'elevato grado di recidività
che in genere li caratterizza, con il rischio di brusche interruzioni
di percorsi terapeutici (in ipotesi virtuosamente avviati). Si assisterà
quindi a un ulteriore sovradimensionamento della popolazione detenuta
con problematiche tossicomaniche (già oggi pari a 14.332 unità
su 56.532 ristretti) e con disturbi psichiatrici correlati alle situazioni
di abuso di sostanze (cosiddetti pazienti a doppia diagnosi). Inoltre,
in caso di pene di breve durata, una tempestiva pronuncia della magistratura
di sorveglianza è assai improbabile, con il rischio che l'accesso
alle misure alternative resti in concreto precluso.
Lo stesso effetto conseguirà, in secondo luogo, alle restrizioni
apportate alla possibilità di accedere alle misure alternative
con il divieto di concessione, per più di una volta, dell’affidamento
in prova ordinario, della detenzione domiciliare e della semilibertà
nonché dell’affidamento terapeutico e della sospensione della
pena ex art. 90 dPR n. 309/90 (per l’accesso ai ultimi quali è
altresì disposto l'abbassamento dei limiti di pena da quattro a
tre anni).
Assai pesanti sono, in terzo luogo, gli interventi manipolativi attuati
sull'istituto della detenzione domiciliare. Accanto a una nuova fattispecie
applicabile ai soggetti ultrasettantenni davvero inaccettabile laddove
consente la concessione della misura soltanto a chi non "sia stato
mai condannato con l'aggravante di cui all'articolo 99 del codice penale",
creando una sorta di stigma indelebile che accompagna per sempre il condannato
plurirecidivo, è stato abbassato a tre anni, nei confronti del
condannato recidivo reiterato (recidiva prevista dall’art. 99, quarto
comma, cp nel testo riformulato dal progetto di legge) il limite per l'accesso
alla misura prevista dal comma 1 dell’art. 47 ter ordinamento penitenziario.
Detta modifica crea delle evidenti disarmonie rispetto a fattispecie contigue:
la detenuta madre o il detenuto padre (in caso di morte o di assoluto
impedimento della prima) di prole di età non superiore ai dieci
anni potranno accedere alla detenzione domiciliare ex art. 47 quinquies
ordinamento penitenziario senza limitazione, anche se plurirecidivi e
addirittura condannati all'ergastolo (sia pure dopo l'espiazione di almeno
quindici anni di pena), mentre il recidivo reiterato condannato a tre
anni e sei mesi che si trova in stato di libertà dovrà entrare
necessariamente in carcere e rimanervi fino a che non residuerà
una pena inferiore ai tre anni; e lo stesso vale per chi versa in condizioni
di salute particolarmente gravi: il condannato a tre anni e sei mesi,
recidivo reiterato per reati di modesta entità, non può
beneficiare dell'istituto, mentre può accedervi il condannato per
omicidio volontario (non plurirecidivo) che sta espiando gli ultimi quattro
anni di pena.
Ambigua, in quarto luogo, è la disciplina dettata dal novellato
comma 1 dell’art. 58 quater ordinamento penitenziario secondo cui
l'ammissione ai benefici penitenziari non può essere concessa al
condannato riconosciuto colpevole di una condotta punibile a norma dell'articolo
385 del codice penale – delitto di evasione - (che dovrà
essere interpretata in un'ottica costituzionalmente orientata, e pertanto
in maniera tale da ricomprendere soltanto i casi in cui la “condotta
punibile a norma dell'articolo 385 del codice penale” sia successiva
alla commissione del fatto per il quale si chiede il beneficio, ché,
altrimenti, si introdurrebbe un inaccettabile automatismo preclusivo che
non tiene conto dell'evoluzione personale nel corso del trattamento).
Infine va segnalata la disciplina dei permessi premio, rispetto alla quale
si rinviene, sempre per i recidivi reiterati (recidiva prevista dall’art.
99, quarto comma, cp nel testo novellato dal progetto di legge), una stretta
notevole (art. 4), anch'essa del tutto priva, per le ragioni già
evidenziate, di un reale fondamento criminologico e verosimilmente giustificata
solo dall'ossessione securitaria che ispira il progetto di legge. Né
varrebbe affermare che in ogni caso, per i fatti antecedenti all’entrata
in vigore della legge, troverà applicazione l'attuale, più
favorevole disciplina. Sul punto, infatti, la norma destinata a disciplinare
i rapporti di diritto intertemporale (art. 7) fa riferimento “all’imputato”
e non al condannato, cosicché la nuova disciplina dell'esecuzione
sembra applicabile ai procedimenti pendenti, ancorché in malam
partem rispetto a quella attualmente vigente: a meno di ipotizzare che
i compilatori siano incorsi in un grave quanto deplorevole (ancorché
non improbabile) infortunio lessicale.
Un conclusivo sguardo d'insieme rivela una forte quanto confusa “compulsione
repressiva” di tipo ideologico, una sorta di riflesso pavloviano
indotto dai rigurgiti securitari che periodicamente si manifestano, talvolta
trasversalmente, nelle dichiarazioni e nelle iniziative parlamentari.
In realtà la disciplina in esame introduce elementi sensibilmente
peggiorativi del quadro normativo, non solo sotto il profilo tecnico-giuridico
e della scarsa capacità di armonizzazione sistematica, ma soprattutto
per la filosofia di fondo che la ispira, lungo le direttrici di politica
criminale tracciate dal vetusto canone della “centralità
della pena detentiva”. Un intervento che, in sintesi, realizza una
torsione repressiva del sistema dell'esecuzione, senza che ad essa si
accompagni alcun concreto intervento per risolvere i ben noti problemi
dell'universo penitenziario [sovraffollamento, assenza di spazi ove realizzare
adeguate iniziative trattamentali, assenza di figure professionali dell’area
educativa, mancanza di lavoro in carcere, inadeguata tutela sanitaria,
in particolare per le problematiche psichiatriche in crescita ormai esponenziale
(circa 31.548 casi accertati) ecc.]: problemi che il nostro sistema detentivo
non appare in grado di gestire, in assenza di una politica giudiziaria
razionale che non si muova sull'onda emotiva di contingenze elettorali
o, peggio, di interessi di fazione o addirittura personali.
5. Apparenza e realtà degli interventi in tema di criminalità
organizzata
A prima vista il disegno di legge sembra inasprire sanzioni e norme processuali
con riferimento ai reati di mafia: lo si ricava dall'aumento delle pene
per il reato di cui all'art. 416 bis del codice penale e dal “nuovo”
art. 161, 2 comma, dello stesso codice secondo cui, in caso di interruzione
della prescrizione, i relativi termini vengono raddoppiati per i reati
di cui all’art. 51, comma 3 bis del codice di rito (e quindi per
i reati di mafia). Per l'art. 416 bis, ad esempio, attualmente la prescrizione,
in ipotesi di mera partecipazione (punita fino a sei anni), è di
dieci anni (quindici in caso di prescrizione prorogata) e diventa, dato
che il progetto di legge aumenta le pene edittali per la mera partecipazione
a cinque anni di minimo e dieci anni di massimo, di dieci anni (o quattordici
anni e sei mesi in caso di prescrizione prorogata); ma nel caso di ipotesi
aggravata per essere armata l’associazione (di assai più
frequente contestazione) la pena massima per la mera partecipazione sale
a quindici anni, sicché con la nuova normativa la prescrizione
ordinaria diventa di quindici anni.
Il quadro cambia, però, profondamente se si guardano altre ipotesi,
assai ricorrenti nei processi per fatti di mafia. Bastino alcuni esempi.
Nel favoreggiamento aggravato ex art. 7 decreto legge n. 152/1991 (l'aggravante
speciale per i reati di mafia), la prescrizione, oggi decennale (in via
ordinaria) e quindicinale (prorogata), scende rispettivamente a sei e
a dodici anni; e così nell'ipotesi di calunnia si passa dagli attuali
dieci anni (quindici in caso di proroga), a sei (e sette anni e sei mesi
per la prescrizione prorogata). I termini di prescrizione, inoltre, vengono
abbreviati anche con riferimento ad altri delitti, tipici dell'attività
mafiosa. Basti ricordare il reato di usura (tipico reato-fine delle organizzazioni
criminali), con riferimento al quale il termine di prescrizione, oggi
decennale (e quindicennale in caso di proroga), è sostanzialmente
dimezzato, passando a sei anni (e a sette anni e sei mesi in caso di proroga).
Difficile dire che, in questo modo, si potenzia l'azione di contrasto
alla criminalità organizzata che pure è indicata come obiettivo
centrale della proposta di legge...
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